Ecco le previsioni dei signor so-tutto. Dopo.
Testata:La Repubblica – Corriere della Sera Autore: Thomas Friedman – Lorenzo Cremonesi Titolo: «Da piazza Tahrir ora la rivoluzione deve arrivare a scuola – Rischio di un nuovo braccio di ferro nelle strade» //*IC*
Riportiamo da REPUBBLICA di oggi, 19/06/2012, a pag. 17, l’articolo di Thomas Friedman dal titolo ” Da piazza Tahrir ora la rivoluzione deve arrivare a scuola”. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 21, l’intervista di Lorenzo Cremonesi a Gilles Kepel dal titolo ” Rischio di un nuovo braccio di ferro nelle strade “.
Ci siamo francamente stancati degli analisti che scoprono l’acqua calda. Nè Gilles Kepel nè Thomas Friedman dicono nulla di nuovo. Analisti che non dicono mai nulla durante, nè prima degli eventi, ma solo dopo. E a posteriori sono tutti bravi ad analizzare la situazione. Ecco i pezzi:
La REPUBBLICA – Thomas Friedman : ” Da piazza Tahrir ora la rivoluzione deve arrivare a scuola “
Thomas Friedman
POCHE settimane fa ad Amman, in Giordania, ho conosciuto una giovane americana che svolge un lavoro straordinario. Shaylyn Romney Garrett, dapprima volontaria del Peace Corps, ha fondato assieme al marito James una ong, la “Think Unlimited”, che aiuta i docenti giordani a «insegnare a pensare e a risolvere i problemi in maniera creativa». «Ecco, questa sarebbe una vera primavera araba», ho pensato. Le rinascite arabe potranno o meno eliminare i dittatori, ma se non innescheranno una rivoluzione analoga nell’ambito dell’istruzione non riusciranno a consegnare il potere alla nuova generazione. Le rinascite arabe sono scaturite da giovani privi dello spazio, degli sbocchi lavorativi e degli strumenti educativi necessari a realizzare le proprie potenzialità. È stata quella l’energia vulcanica a far saltare il coperchio di Egitto, Tunisia, Siria, Yemen e Libia. E a meno di soddisfare le aspirazioni dei giovani, i partiti islamici che hanno colto quell’occasione per assumere il potere, finiranno come Mubarak e Gheddafi. Dalia Mogahed, che fa sondaggi per la Gallup, fa notare che in Egitto il sostegno alla Fratellanza e ai salafisti è sceso del 20 per cento da gennaio a oggi. Infatti questi hanno erroneamente interpretato la vittoria parlamentare come un mandato religioso. L’invito a depenalizzare la mutiliazione genitale femminile ha scatenato una violenta reazione. Quando la Gallup ha chiesto agli egiziani quale partito appoggiassero e quali debbano essere le priorità del nuovo governo, la risposta, afferma Mogahed, è stata unanime. «Sia per i liberali sia per i conservatori al primo posto c’è il lavoro, poi lo sviluppo economico, la sicurezza e la stabilità. Sono quasi le stesse risposte dell’elettorato americano. Ma se la Fratellanza musulmana interpreterà la vittoria come un mandato di natura ideologica anziché un voto per un buon governo, perderà il potere ». Stando all’indagine condotta nel 2012 da Burson-Marsteller, «i giovani mediorientali hanno due priorità: un buono stipendio e una casa — più che il desiderio della democrazia». Non c’è da stupirsene. Senza un’istruzione adeguata non è possibile ottenere un impiego decente e acquistare un appartamento. E in mancanza di questi requisiti non ci si può sposare. Oggi il numero di giovani arabi che, finita l’università, continuano a vivere con la famiglia d’origine tocca punte da record. Il 25 per cento degli arabi fra i 15 e i 24 anni d’età sono disoccupati: una moltitudine resa pericolosa dal fatto che si tratta di disoccupati scolarizzati — ma non realmente istruiti. Nelle classifiche internazionali di matematica e alfabetizzazione, le scuole pubbliche arabe sono in fondo alla graduatoria, a causa di un sistema che chiede agli studenti di prendere appunti, ripetere a memoria e, se si desiderano risultati migliori, pagare lezioni private. Stando a Mona Mourshed, un’egiziana-americana che lavora per la McKinsey e si occupa di istruzione globale, nel mondo arabo il motto «l’istruzione porta alla disoccupazione » prevale su «l’istruzione porta all’occupazione». «Il metodo d’insegnamento è vecchio di secoli, i programmi non forniscono agli studenti le competenze di cui hanno bisogno». Nel mondo arabo, prima che un nuovo dipendente possa diventare produttivo occorrono nove mesi di addestramento da parte del datore di lavoro. L’iniziativa più popolare con cui gli Usa potrebbero sostenere la Primavera araba sarebbe di identificare sei o sette settori produttivi — nella manifattura leggera, nel tessile, nei servizi, nella videoscrittura, ecc — e introdurre programmi di istruzione mirati all’impiego in quei settori. Giorni fa un drone Usa ha ucciso “il numero due” di Al Qaeda. Il mondo ora è un posto migliore, ma non credo che il presidente Obama capisca sino a che punto gli attacchi dei droni siano considerati il marchio della sua politica nel Medio Oriente. Secondo Mogahed, Obama deve ricordarsi quale evento epocale sia stata la sua elezione. Gli arabi sapevano che nella loro società ciò non sarebbe potuto accadere; l’impatto è stato enorme sulla percezione di quel che è possibile. «È stata una vittoria simbolica per i valori americani e per l’idea che è possibile affermarsi basandosi solo sui meriti personali, a prescindere dalle proprie origini». Adesso, però, stiamo allontanandoci da quel copione. E a meno di indirizzare gli aiuti destinati ai Paesi arabi ai settori dell’istruzione e dell’occupazione, saremo sempre destinati a uccidere il numero due di Al Qaeda.
CORRIERE della SERA – Lorenzo Cremonesi : ” Rischio di un nuovo braccio di ferro nelle strade “
Gilles Kepel
IL CAIRO — «La situazione è ancora fluida, aperta, si rischia il caos. Nelle prossime ore ci saranno pericolose prove di forza nelle strade. Sembra che il candidato dei Fratelli musulmani, Mohammed Morsi, abbia vinto, anche se di poco. Ma il suo avversario, Ahmed Shafiq, non è affatto disposto ad ammetterlo. Segno che i militari potrebbero ancora intervenire sui risultati e non si sono affatto arresi». È cauto Gilles Kepel. Tra i maggiori esperti mondiali del fondamentalismo islamico contemporaneo (il suo celebre libro Il Profeta e il Faraone, pubblicato in Francia nel 1984, tratteggia la genesi della guerriglia jihadista tra i colletti bianchi egiziani impoveriti), ieri già alle sette di mattina era in piazza Tahrir a intervistare i sostenitori festanti di Morsi. Nel pomeriggio guardava però preoccupato alla destabilizzazione incipiente. Quale scenario se Morsi fosse confermato presidente? «La sua presidenza nascerebbe zoppa, impotente. Un presidente senza Parlamento, privo di potere legislativo, con i militari depositari del vecchio regime che cercano in ogni modo di imporre le loro regole per l’assemblea costituente. Ciò spiega l’enfasi che guida i Fratelli musulmani nell’organizzare le manifestazioni di piazza previste per le prossime ore. Vogliono il braccio di ferro, intendono cambiare le regole del gioco. Morsi sa che la sfida potrebbe farsi molto dura, per questo è praticamente sparito dalle piazze nelle ultime ore, teme persino di essere assassinato». L’Egitto svolta verso il radicalismo religioso? «Non lo credo. Almeno non nel prossimo futuro. Morsi è stato votato da larghi settori della popolazione che non fanno parte del suo elettorato naturale. I militari hanno commesso un errore madornale giovedì sera nel limitare unilateralmente i poteri del presidente e de facto imponendo una sorta di golpe. Hanno così spaventato tanti sostenitori di Shafiq, che però volevano il cambiamento. L’effetto boomerang è stato lo spostamento verso i Fratelli tra i moderati centristi. A loro si aggiungono i nasseriani legati alla rivoluzione, ma certo contrari al diktat delle moschee sullo Stato. Morsi cerca ora di non perderli presentandosi come il leader di tutti gli egiziani che vogliono abolire il vecchio regime, ma non necessariamente essere dominati dalla legge religiosa islamica». Quale potrebbe essere l’evoluzione del rapporto tra militari e Fratelli musulmani? «Hanno la necessità di rinegoziare un modus vivendi. Dai tempi dell’assassinio di Anwar Sadat nel 1981, l’accordo non scritto era che il regime di Mubarak si sarebbe occupato della politica estera, di mantenere il trattato di pace con Israele e degli affari di Stato. Al contrario i Fratelli avrebbero mantenuto una discreta presenza nel sociale grazie alla loro rete di scuole, ospedali, centri coranici. Ora vorrebbero rivedere quelle intese, ma da un punto di forza, con una valenza molto più politica, molto più rilevante». Che ne sarà delle minoranze, specie dei cristiani? «Non li vedo bene. Soprattutto i capi della Chiesa copta hanno pubblicamente preso posizione in sostegno di Shafiq. Ci sono stati appelli nelle chiese, dichiarazioni ai media. Ora sono spaventati, non è difficile trovare coloro che vorrebbero emigrare all’estero. La mancanza di un leader spirituale, dopo la morte di papa Shenouda in marzo, aggiunge disorientamento. Hanno bisogno ancora di mesi per nominare un nuovo papa. Ovvio che ora un prezzo dovranno pagarlo se dovesse davvero vincere Morsi. Non subito, ma nel tempo». E il rapporto di pace con Israele? «La questione è sul tavolo. Ed è pure legata a filo doppio ai milioni di dollari che annualmente gli Stati Uniti versano nelle casse egiziane. L’Egitto soffre di una gravissima crisi economica. Il turismo è paralizzato da oltre 16 mesi. I Fratelli che sono al Parlamento da dicembre hanno dato una prova molto scarsa, specie in campo economico. Mancano investimenti, i capitali locali e stranieri fuggono all’estero. Tanti iniziano a dire che almeno sotto la dittatura c’era lavoro. E non esiste una classe imprenditoriale islamica come quella che sostiene Erdogan in Turchia. Qui il modello turco non è applicabile. Morsi presidente avrebbe il coltello alla gola, dovrebbe dimostrare in tempi brevi di essere in grado di rimettere in moto l’economia, non avrà dunque alcun interesse a rinunciare agli aiuti americani, per questo cercherà di evitare polemiche con Israele. Il vero rischio per il prossimo presidente, sia Morsi oppure Shafiq, sono le rivolte del pane. L’eventuale affossatore della rivoluzione sarà la fame».
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