(Da: YnetNews, Israel HaYom, 6.6.12, israele.net 07-06-2012)

Nella foto a sinistra: Gidon Shaviv, autore di questo articolo.

 

Domanda: che cosa si ottiene mettendo insieme un’attivista estremista che si offre volontaria come scudo umano a difesa dei terroristi e un ex portavoce dell’Autorità Palestinese? Risposta: il dipartimento di Amnesty International per i rapporti su Israele. “Imparzialità” è uno dei valori fondamentali proclamati dallo statuto di Amnesty International. Inoltre, le linee guida editoriali per i rapporti redatti da Amnesty stabiliscono che “i contenuti mediatici prodotti da Amnesty International devono essere corretti e obiettivi”. Queste professioni di “imparzialità” e “obiettività” stanno a fondamento della reputazione di Amnesty come uno dei massimi promotori dei diritti umani. Nel caso di Israele, però, Amnesty ignora i suoi stessi valori, permettendo invece che i suoi rapporti siano redatti da persone animate da un chiaro pregiudizio ostile a Israele. La cosa appare in tutta la sua evidenza nell’ultimo rapporto di Amnesty sull’uso della detenzione amministrativa da parte di Israele, che è stato diffuso mercoledì scorso (“Affamati di giustizia”). Amnesty cita come contatti con i mass-media per il rapporto due impiegati contraddistinti da un chiaro conflitto di interessi: Deborah Hyams e Saleh Hijaz. Hyams ha aderito ad Amnesty nel 2010 dopo una lunga storia di attivismo pro-palestinese e anti-israeliano. Nel 2001 si offrì volontaria come “scudo umano” a Beit Jala, presso Betlemme, per impedire alle Forze di Difesa israeliane di rispondere al continuo fuoco di cecchini e mortai di terroristi palestinesi contro i civili ebrei dei quartieri sud di Gerusalemme. Stando a un articolo pubblicato nel 2002 sulla Washington Jewish Week, “Hyams ha affermato che, pur non giustificando gli attentati suicidi, lei personalmente ritiene che essi costituiscano ‘una risposta all’occupazione’.” In un’altra occasione ha difeso l’uso della violenza affermando che “l’occupazione è violenza… e la conseguenza di questo non può che essere la violenza”. Con un curriculum di questo genere, nessun lettore può prendere per buono il rapporto di Amnesty per cui Hyams ha lavorato. Allo stesso modo, se Amnesty vuole mantenere un minimo di imparzialità non può considerare Saleh Hijazi una persona qualificata per operare sui temi che riguardano Israele. Hijazi, un palestinese nato a Gerusalemme e cresciuto a Ramallah, con tutta evidenza non può essere considerato obiettivo dopo che, nel 2005, ha lavorato come addetto alle pubbliche relazioni del ministero della pianificazione a Ramallah e, nel 2007, era indicato come contatto per la ong “Another Voice”, sotto il logo dell’organizzazione: “Resistere! Boicottare! Noi siamo l’intifada!”. Non basta. Hijazi ha un conflitto di interesse specifico sul tema della detenzione amministrativa. Il 9 marzo 2011, in qualità di ricercatore per Human Rights Watch è intervenuto a un convegno delle Nazioni Unite dove ha raccontato che suo padre – a suo dire – venne arrestato dalle autorità israeliane “solo perché i soldati israeliani non trovarono un vicino di casa attivista”. Come può essere imparziale, Hijazi, nel redigere il rapporto sulla detenzione amministrativa in Israele mentre contemporaneamente sostiene di essere vittima di quello stesso paese e di quella stessa pratica di cui si occupa il rapporto? Hyams e Hijazi non sono gli unici impiegati di Amnesty con consolidate prevenzioni anti-israeliane. Nell’agosto 2010 il direttore esecutivo di Amnesty-Finlandia, Frank Johansson, sul suo blog definì Israele “uno stato feccia”. Kristyan Benedict, dirigente dell’unità Crisis Response & Country Priorities di Amnesty, rilasciò un’intervista in cui spiegava che il conflitto arabo-israeliano è causato dal fatto che “gli Stati Uniti usano sia la parte araba sia la parte israeliana per fruttare soldi, potere e controllo”. E che “Israele preme sempre sui tasti giusti per far sentire insicuri tutti gli stati arabi circostanti, come la Siria e il Libano, così poi questi acquistano armi da altri stati e ciò costituisce un’industria molto lucrosa”. Certo, può sembrare di cattivo gusto criticare gli autori anziché il merito di un rapporto. Ma quando gli artefici chiave di un rapporto, che si vorrebbe “imparziale” e “obiettivo”, sono così sfacciatamente di parte, criticarli diventa non solo legittimo, ma anche doveroso se si vogliono promuovere i principi dei diritti umani universali. Su questi argomenti, descrivere in modo imparziale e obiettivo l’esatto contesto dei fatti risulta cruciale per la redazione di un rapporto attendibile e corretto. Al contrario, i preconcetti ideologici non possono che alterare l’intero quadro in funzione delle conclusioni già stabilite a priori. (Non c’è dunque da stupirsi se il rapporto di Amnesty, come denuncia Gerald Steinberg, presidente di “NGO Monitor”, ignora completamente il contesto in cui si inseriscono le azioni israeliane: si pensi anche solo a un ambiente in cui le fonti testimoniali decisive per la lotta al terrorismo vengono sistematicamente minacciate e assassinate come “collaborazionisti”. Né stupisce che il rapporto applichi due pesi e due misure: in realtà la detenzione amministrativa è una procedura utilizzata da molti paesi democratici, compresi Stati Uniti e Regno Unito, e Israele, nel farvi ricorso, si attiene al diritto internazionale relativo alle zone militarmente amministrate: tutti i palestinesi arrestati vengono portati davanti a un giudice entro il breve lasso di tempo previsto e tutte le prove vengono esaminate dalla corte). Il pregiudizio si mostra con evidenza anche nel rapporto annuale di Amnesty pubblicato la scorsa settimana (30 maggio). Nella sezione su Israele, verosimilmente redatta da Hyams e Hijazi, si parla di palestinesi che hanno “sparato indiscriminatamente razzi e mortai sul sud di Israele uccidendo due persone e mettendo in pericolo la vita di altri” (p. 267). Questi “altri” infilati alla fine della frase sono più di un milione di israeliani costretti da dieci anni a vivere nella costante paura dei razzi lanciati contro di loro e i loro figli. Questo è esattamente il linguaggio che ci si attende da un’attivista intransigente anti-israeliana come Hyams, da un ex funzionario dell’Autorità Palestinese come Hijazi o da un seguace delle teorie complottiste come Benedict. Ma è del tutto inappropriato che la più grande organizzazione del mondo per i diritti umani definisca semplicemente “altri” un milione di civili israeliani costantemente nel mirino dei terroristi. Quando vengono cooptate da persone con una precisa agenda politico-ideologica, le organizzazioni per i diritti umani non sono più in grado di assolvere il loro mandato. La scelta di Amnesty di arruolare nella sua sezione su Israele operatori chiaramente prevenuti in senso anti-israeliano ha reso tragicamente irrilevante la sua opera ai fini della difesa dei diritti umani in tutta la regione. Chi ha veramente a cuore i diritti umani dovrebbe prendere posizione esplicitamente contro il sequestro politico di una delle più potenti ong del mondo per mano di una delle parti in causa.

 

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