Per l’ennesima volta dal 2002, questa settimana è
stata caratterizzata da un gran numero di speculazioni su un eventuale attacco
preventivo contro l’Iran. Nel 2002 si scoprì che la Repubblica Islamica aveva
un proprio programma atomico segreto, volto all’arricchimento dell’uranio.
L’uranio arricchito al 90% serve alla costruzione di testate nucleari. Da
quel momento è iniziata la guerra (per ora solo di informazioni) contro la
minaccia iraniana. La situazione si è aggravata con l’inizio della presidenza
di Mahmoud Ahmadinejad nel 2005. La sua retorica antisemita (“Cancelleremo
Israele dalle carte geografiche”, frase scritta anche sui missili balistici
iraniani durante le parate) fa ragionevolmente temere che l’Iran, non solo
voglia costruirsi l’atomica, ma la voglia anche usare contro lo Stato ebraico.
Come faceva notare l’ex presidente “moderato” Rafsanjani: “Basta una sola
testata nucleare per distruggere l’entità sionista, non basterebbe un intero
arsenale atomico per distruggere 100 milioni di musulmani”. Se l’Iran dovesse
impugnare la spada della Jihad atomica, uno scenario apocalittico non avrebbe
alternative.

 

Dal 2002 ad oggi le voci di un attacco preventivo,
per porre fine alla minaccia, si sono moltiplicate. In almeno un caso, nel
2008, non erano prive di fondamento. Lo abbiamo scoperto solo dopo, con la
pubblicazione su WikiLeaks dei cable diplomatici americani: il governo Olmert,
tre anni fa, chiese realmente a Washington un parere su un attacco preventivo.
Allora alla Casa Bianca c’era George W. Bush. Che, vuoi per prudenza, vuoi per
l’incapacità militare di gestire un’altra guerra oltre a Iraq e Afghanistan,
vuoi per motivi elettorali (era alla vigilia delle elezioni), negò
tassativamente ogni disponibilità di aiuto in un’azione militare e scoraggiò il
governo Olmert di fare da solo. Il finale del 2008 non fu comunque
“tranquillo”: fra il dicembre e il gennaio dell’anno successivo, Israele
dovette affrontare la guerra a Gaza contro Hamas (organizzazione armata
dall’Iran, soprattutto in quel periodo) per rispondere ai continui lanci di
razzi sulla popolazione del Negev. Ma lo scenario di una guerra mediorientale
generale rimase lontano. La rivelazione di WikiLeaks sulla prudenza di Bush
smentì, per altro, le voci ricorrenti, alimentate dal giornalista Seymour
Hersh, su un imminente attacco a guida statunitense. Hersh aveva pubblicato sul
New Yorker un’inchiesta su operazioni segrete americane in territorio iraniano,
in vista di un attacco preventivo. Evidentemente quelle operazioni non
esistevano, o comunque non erano propedeutiche a un’offensiva.

Perché le speculazioni su un attacco preventivo sono
tornate in primo piano? Perché nel governo israeliano su questa ipotesi è
scoppiata una bufera. E in questa bufera ci si è inserito a gamba tesa il
quotidiano britannico The Guardian, il “portavoce” di WikiLeaks.

Il premier israeliano ha alimentato i timori di una
guerra preventiva nel suo discorso alla Knesset (il parlamento israeliano)
lunedì scorso. “Se devo riassumere quel che sta accadendo in questa regione del
mondo, posso usare solo due termini: instabilità e incertezza”. Dopo aver fatto
il punto della situazione sulle rivoluzioni arabe, è giunto al punto che gli
interessava: “Un Iran nucleare sarebbe un problema terribile per il Medio
Oriente e per il mondo intero. E naturalmente sarebbe un problema terribile per
noi”. Come affrontare il “problema”? “Una filosofia della sicurezza nazionale”
– ha spiegato Netanyahu ai deputati – “non deve basarsi solo sulla difesa. Deve
prevedere anche la possibilità di attaccare per primi, che è la base su cui
poggia la deterrenza. Noi agiamo e continueremo ad agire contro tutti coloro
che minacciano lo Stato di Israele e i suoi cittadini. E la nostra politica, in
merito, si fonda su due massime. La prima recita: se qualcuno sta arrivando a
ucciderti, alzati e colpisci per primo. La seconda: se qualcuno ti ferisce, il
suo sangue sarà nelle sue mani”. Questo discorso è stato pronunciato proprio
quando la protezione civile israeliana stava effettuando una serie di esercitazioni
per la protezione da eventuali attacchi missilistici, sia convenzionali che di
distruzione di massa. Questa settimana Israele ha anche compiuto esercitazioni
di lanci di missili Jericho, in grado di raggiungere l’Iran. Aerei
dell’aviazione dello Stato ebraico hanno compiuto manovre assieme ai nostri sui
cieli della Sardegna. E i sottomarini con la stella di David sono stati
dispiegati nel Mare Arabico, da dove possono eventualmente lanciare contro
tutto il territorio iraniano. Non bisogna farsi troppo illudere da queste
coincidenze, tuttavia. Israele, nazione numericamente inferiore ai suoi nemici,
basa tutto il suo potere militare sulla capacità di reazione rapida. Il
discorso di Netanyahu è coerente con una dottrina che ha 60 anni di età. Non
sarebbe sorto alcun dubbio sulla possibilità di un attacco imminente se non
fosse scoppiato un dibattito su “indiscrezioni” uscite per sbaglio o per dolo
dall’esecutivo di Gerusalemme. Queste indiscrezioni parlano di un Netanyahu
intento a convincere i ministri più riluttanti, fra cui il “falco” Avigdor
Liebermann, a lanciare un primo colpo contro l’Iran. Si dice (nel quotidiano
israeliano Haaretz e nel kuwaitiano Al Jarida) anche che siano stati diffusi a
orecchie e occhi sbagliati, parti di un piano di guerra. Il governo Netanyahu
ha avviato un’indagine per accertare chi siano i responsabili di queste fughe
di notizie.

In mezzo a questa gazzarra, il The Guardian, da sue
fonti, afferma che corpi speciali britannici stiano preparando il terreno a
un’offensiva generale anglo-americana contro l’Iran. Torna in mente
l’inchiesta, già sbugiardata, di Seymour Hersh. Siamo di fronte a un’altra
bufala? O le operazioni segrete inglesi esistono? E se esistono, a cosa mirano?
Una cosa è certa: Barack Obama, nonostante l’ostilità iraniana contro gli Usa
(è di appena due settimane fa un tentativo, fallito, di attentato a Washington
contro l’ambasciatore saudita) tutto dimostra meno di voler fare una guerra.
Anzi, ritirando le truppe dall’Iraq, permette al vicino regime di Teheran di
allargare la propria sfera di influenza. Se in Israele il dibattito sull’Iran è
così acceso il 41% della popolazione si dice favorevole a un attacco
preventivo, lo si deve proprio alla passività di un Obama.

Stefano Magni

L’Opinione 6 novembre 2011

 

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