Yom Kippur, il suo significato oggi.
Testata: Informazione Corretta
Data: 09 ottobre 2011
Riprendiamo da MOKED il commento di Ugo Volli sulla ricorrenza
di Yom Kippur:
Al centro della liturgia di Yom Kippur vi sono le letture sul rituale che veniva
eseguito nel Tempio per la ricorrenza, in cui compare con rilievo la figura dei
due capri identici, uno sacrificato e l’altro caricato simbolicamente di tutti i
peccati del popolo di Israel e “dato ad Azazel” ovvero abbandonato, a quanto
sembra, nel deserto.
Il rito descritto è molto enigmatico e si presta a complessi ragionamenti esegetici.
Nel linguaggio popolare e certamente in
maniera inesatta ne è nata però l’espressione “capro espiatorio”, che ha assunto
un significato metaforico diverso, venendo a indicare l’innocente cui si fanno
scontare peccati non suoi. In realtà il capro del Tempio non era né più né meno
innocente degli altri animali che venivano sacrificati e forse aveva una sorte
migliore, dato che veniva reimmesso nel suo ambiente naturale. La sua sorte
aveva soprattutto un valore simbolico, soprattutto per l’identità di forme con
l’altro capro, sacrificato, cioè in ebraico “avvicinato” alla Divinità.
Ma l’altra figura popolare del capro espiatorio, isolato fra i suoi pari e vittima
di una proiezione sociale di colpa del tutto infondata, è assai diffusa e indica
un meccanismo sociale reale e molto comune, come hanno mostrato gli studi di
René Girard.
Il meccanismo è costante, lo stesso indicato dalla storia della
tragedia shakespeariana “Timone d’Atene”, dal mito di Edipo, o dalla vicenda di
Socrate. Vi è qualcuno che ha successo e magari lo vive con generosità e
partecipazione, in una situazione sociale di tensione. E’ però (o perciò)
isolato, diverso dagli altri. Intorno a lui cresce un’ostilità senza ragione ma
potente e universale, gli vengono fatte accuse ingiuste, viene visto come causa
di tutti i mali e ostracizzato, e alla fine egli è abbattuto e distrutto.
Dopo la rovina e di solito la morte, però, può capitare che il
capro espiatorio venga esaltato come un santo e ricordato di nuovo e forse
esageratamente per i suoi meriti.La cosa ci interessa non solo perché la
metafora scelta per questo meccanismo sociale ha origini ebraiche, ma anche
perché ci ha spesso colpito, nel mondo cristiano come in quello islamico e prima
in Persia come in Egitto e a Roma. Il meccanismo delle persecuzioni ha
spesso scelto comunità floride e ben integrate nel loro ambiente, utili
culturalmente ed economicamente alla società con calunnie insensate (il
deicidio, l’accusa del sangue, la peste ecc.). Spesso queste persecuzioni
sono state reiterate per il semplice fatto che c’erano state prima, anche se
molto volte esse sono state promosse consapevolmente da autorità politiche e
religiose.
Negli ultimi secoli il popolo ebraico è stato accusato di essere
l’autore di tutte le rivoluzioni e contemporaneamente dello sfruttamento
capitalistico contro cui le rivoluzioni si rivolgevano, di tutti i mali della
modernità, di essere integrato e quindi pericolosamente invisibile, e di non
essere integrabile e quindi pericolosamente estraneo, di avere poteri occulti e
di essere un carico per le nazioni. L’ultimo grande ciclo di queste
persecuzioni, che peraltro si riproducono da millenni, è stata la Shoà. In essa
si è realizzata anche l’operazione finale di canonizzazione della vittima ad
opera degli stessi persecutori, che compare nel modello di Girard. I popoli che
furono, con le debite eccezioni, “volonterosi carnefici”, celebrano oggi
giornate della memoria e erigono monumenti, salvo sotto sotto accusare di nuovo
gli ebrei, come mostrano i sondaggi, di “esagerare” nel ricordo della Shoà, e
magari di “sfruttarla” per i loro (naturalmente loschi) fini.Il ciclo
infatti non è finito. Ora prende come capro non più i singoli ebrei, o le loro
comunità disperse nella diaspora, ma lo Stato in cui è raccolta e protetta e
finalmente liberata la maggiornza del nostro popolo, Israele. Se forse vi fu,
dopo la Shoà, un momento di grazia in cui per i popoli europei era chiaro che le
loro vittime avevano diritto a un rifugio, e se il nuovo Stato fiorì e fiorisce
sul piano economico e sociale, si sforza di mantenere una dimensione equa e
democratica nelle condizioni più difficili di una guerra che dura da cent’anni,
ora il meccanismo di espulsione e di colpevolizzazione agisce a tutta forza,
proprio per via del successo. E’ troppo “occidentale”, troppo moderno,
troppo benestante quello stato, è colpevole di aver abbandonato il suo sano
stato di povertà (di espiazione?)E’ colpa di Israele, com’era colpa di
Timone, di essersi isolato, cioè dell’essere oggetto del rancore di coloro che
lo isolano; Israele è di nuovo “troppo potente” e quindi va ridotto in
debolezza; di nuovo opprime e succhia il sangue delle sue vittime; anzi, è esso
stesso colpevole di imporre agli altri quel che egli stesso ha subito, “si
comporta come i nazisti”.
I giornali sono pieni di paterni consigli su come
Israele dovrebbe pentirsi, lasciar fare i Palestinesi quel che vogliono, anche
se essi dicono con sempre maggiore chiarezza che il loro scopo è la sua
distruzione.
Va corretto, messo sotto tutela, secondo l’esempio che ha molta
fortuna nei giornali americani di sinistra: “lascereste montare in macchina e
guidare un amico ubriaco?”
Gli israeliani sono “ubriachi”, arroganti, non
chiedono scusa anche se hanno ragione, esagerano a difendersi. Sono paranoici,
“estremisti”, colonialisti, anzi “coloni”. Dovrebbero smetterla e accettare i
“diritti” dei palestinesi, loro sì, vittime e originari di quei posti (anche se
il nome che si sono dati è romano, la delimitazione di quella terra non è mai
comparsa nei testi o nella letteratura araba, Gerusalemme non è mai citata nel
Corano e tutti sappiamo come e quanto nella nostra tradizione). Non importa,
hanno ragione anche quando hanno torto, perché “sono i più deboli”, sono
“oppressi”, anzi “occupati”.
In realtà vi sono decine di testimonianze
dirette e recenti, spesso arroganti, del fatto che un accordo sul riconoscimento
dello stato palestinese non fermerebbe la “lotta” contro Israele, ma la
rafforzerebbe con una vittoria decisiva, e che lo scopo finale di questa “lotta”
è una “Palestina” “dal fiume al mare”, dove gli ebrei non avrebbero diritto di
vivere (salvo quelli presenti da più di un secolo, come indicano i loro
statuti).
Ma nessuno fa cenno a queste poco amichevoli intenzioni. Nel
paradigma del capro espiatorio tutte le colpe sono concentrate sulla vittima,
gli altri sono i giusti, perché – senza saperlo – hanno scaricato su di essa i
loro peccati. Israele è odiata dagli occidentali più morali perché è colpevole
dei loro peccati storici, il colonialismo, l’imperialismo, il militarismo. Se
loro sono innocenti, Israele dev’essere colpevole; se Israele è colpevole, essi
si sono lavati dei loro peccati. Anzi, essi, innocenti, sono vittime della
vittima e la eliminano (o la fanno eliminare da chi ne ha ancor più diritto di
loro) con un atto per così dire terapeutico, buono, santo, per risanare la
società, come spiega Girard.
Ci sarà tempo poi per nuove giornate della memoria e nuovi monumenti.
E naturalmente come capita in questi casi vi sia
una parte della vittima che consente e rincara le dosi, stabilendo un’equazione
fra sionismo e nazismo che – duole dirlo – fu proposta già da Buber quando il
nazismo era in piedi, poi ripresa da Leibowitz e da una parte consistente della
sinistra e rilanciata da gruppi come Naturei Karta e Satmar. Non cito persone
più vicine a noi, perché oggi non voglio polemizzare ma spiegare. Forse queste
accuse interne non cambiano il corso della persecuzione, probabilmente non sono
azioni importanti, se non sul piano morale; ma certamente aiutano i persecutori,
indeboliscono e delegittimano il “capro espiatorio”, come racconta anche la
tragedia di Timone.
Questo è il pericolo attuale, cui dobbiamo fare fronte.
E possiamo farlo solo se lo comprendiamo, se prendiamo atto che un
nuovo ciclo di persecuzione è in preparazione, non solo per Israele ma anche di
conseguenza per la diaspora, e se siamo uniti nel fronteggiarlo. Non indico qui
i sintomi né la cause di questo pericolo in corso – è un compito cui mi dedico
quotidianamente e per cui qui manca lo spazio. Mi limito a ripetere che è
urgente una presa di coscienza di questa situazione, la consapevolezza da parte
di tutto il popolo ebraico che di nuovo si trova a dover ragionare sulla propria
sopravvivenza.
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