Uno tsunami in un bicchier d’acqua.
Nella foto: Mahmoud Abbas (Abu Mazen) in una foto ufficiale diramata
dall’Autorità Palestinese nella quale viene mostrata la consueta mappa delle
rivendicazioni territoriali palestinesi: Israele è cancellato dalla carta
geografica.
Scrive Emanuel Navon, su Yisrael Hayom: “Il
previsto voto all’Onu sul riconoscimento di uno stato palestinese unilaterale (cioè, senza accordo negoziato con Israele) non sarà – come qualcuno ha detto –
uno”tsunami diplomatico”, quanto piuttosto una tempesta in un bicchier d’acqua.
Secondo la Carta delle Nazioni Unite, un Paese che vuole essere ammesso
nell’Organizzazione deve rivolgersi al Segretario Generale, che inoltra la
richiesta al Consiglio di Sicurezza. Ma innanzitutto deve esserci un Paese. Ora,
non solo Mahmoud Abbas (Abu Mazen) non ha dichiarato la creazione di uno Stato (come al contrario fece Israele, nel 1948, in base a una decisione dell’Onu,
prima di inoltrare la propria domanda di ingresso alle Nazioni Unite nel 1949);
ma l’Autorità Palestinese non soddisfa i criteri di base che il diritto
internazionale richiede per essere considerati uno Stato: popolazione
permanente, territorio definito, un governo in grado di condurre gli affari
esteri. In base al diritto internazionale, l’Autorità Palestinese non ha un
territorio con confini definiti, quanto piuttosto un territorio oggetto di
contesa e di negoziato: non è mai esistito uno stato sovrano arabo-palestinese
in Cisgiordania e striscia di Gaza; e non è mai esistito un confine fra Israele
e Cisgiordania, bensì soltanto una temporanea linea di cessate il fuoco definita
come tale (su pressione proprio delle controparti arabe) negli armistizi firmati
a Rodi nel 1949. La risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 242 (del 1967) non
chiede a Israele di ritirarsi sulle linee di cessate il fuoco del 1949 (che
infatti il testo della 242 non menziona nemmeno). E l’Autorità Palestinese non
ha un governo: ne ha almeno due, quello dominato dall’Olp a Ramallah (in
Cisgiordania) e quello controllato da Hamas a Gaza (dove Abu Mazen non può
nemmeno mettere piede). E non si dimentichi che sono falliti tutti i tentativi
fatti da Abu Mazen di arrivare a un governo unico palestinese (la stessa idea di
rivolgersi all’Onu per il riconoscimento unilaterale è contestata dal “governo”
di Hamas come illegittima e sbagliata). Pertanto, il previsto voto all’Assemblea
Generale sarà solo l’ennesimo proclama senza contenuto, per il quale i
palestinesi rischiano di pagare inutilmente un prezzo molto alto”.
(Da:
Yisrael Hayom, 19.9.11)
Scrive Dan Margalit, sempre su Yisrael Hayom: “Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) rifiuta ostinatamente la pace. L’ha dimostrato almeno due volte: a Camp David nel 2000 (con Yasser Arafat) e di nuovo nel 2009 quando se la diede a gambe nel momento in cui l’allora primo ministro israeliano Ehud Olmert gliela offrì su piatto d’argento. Anche gli israeliani che sostengono – come il sottoscritto – che l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu pone parecchie condizioni e difficoltà alla ripresa dei negoziati, riconoscono tuttavia che è Abu Mazen che ha escluso la ripresa dei contatti. Non si può dimenticare che nel 2010 il leader palestinese ha sprecato, senza intavolare trattative concrete con Israele, i dieci mesi di congelamento decretato dal governo Netanyahu delle attività edilizie ebraiche negli insediamenti di Cisgiordania”. In effetti, dopo aver lasciato trascorrere i dieci mesi senza muoversi, Abu Mazen accettò di riprendere il negoziato solo a pochi giorni dalla loro scadenza per sospenderli di nuovo subito dopo sulla base della pretesa che il congelamento venisse immediatamente prolungato. Dan Margalit conclude sollecitando in ogni caso Netanyahu a considerare un altro analogo congelamento temporaneo, come gesto di buona volontà in un Medio Oriente che nel frattempo ha conosciuto così tanti e profondi cambiamenti.
(Da: Yisrael Hayom, 18.9.11)
Si veda anche:
UN ERRORE STORICO, UN OSTACOLO POLITICO,
UN NONSENSO LOGICO
«Parlare di confini del ’67 porta necessariamente con sé
l’impressione che qualunque assetto che si discosti da quelle linee non possa
che essere eccezionale, transitorio, in qualche modo sbagliato e innaturale. E
dunque bisognerà ricordare che gli unici confini internazionali d’Israele sono
quelli con Egitto, Giordania e Libano, mentre le linee armistiziali del 1949,
esse sì provvisorie, che separavano la Cisgiordania da Israele non sono mai
diventate confini permanenti né riconosciuti: men che meno dagli stessi stati
arabi, i quali insistettero affinché nel testo degli armistizi fosse
esplicitamente scritto che “le linee di demarcazione non sono in alcun modo
concepite come frontiera politica o territoriale e non pregiudicano i diritti,
le rivendicazioni e le posizioni delle parti circa la composizione finale della
questione palestinese”. Così l’art. V comma 2 dell’Accordo d’Armistizio
Israelo-Egiziano del 24 febbraio 1949. L’intero Accordo è definito del tutto
ininfluente riguardo ad ogni aspetto della futura composizione politica del
conflitto dall’art. IV comma 3. Identico concetto è ribadito nell’art. II comma
2 dell’Accordo con il Libano (23 marzo 1949), nell’art. II comma 2 dell’Accordo
con la Giordania (3 aprile 1949), e negli artt. II comma 2 e V comma 1
dell’Accordo con la Siria (20 luglio 1949). Se invece, sia in sede politica che
didattica, si continua a parlare di confini del 67, diventa poi difficile
spiegare lo spirito e la lettera della Risoluzione Onu 242 (1967), e spiegare
come mai tutte le rilevanti proposte di composizione territoriale – dagli
accordi di Oslo degli anni ’90, ai piani di Camp David del luglio 2000, ai punti
di Bill Clinton del dicembre 2000, alle offerte di Taba del gennaio 2001 – si
basano sul principio che il futuro confine fra Israele e vicini arabi non è già
stabilito. Lo stesso accordo “virtuale” di Ginevra firmato da private
personalità israeliane e palestinesi nel dicembre 2003 – la proposta di
compromesso forse più avanzata che sia mai stata formulata – prevede spostamenti
del confine rispetto alla Linea Verde del 1949-67. D’altra parte, come
potrebbero le parti concordare un futuro confine che risponda quanto più
possibile alle rispettive esigenze (sicurezza, omogeneità demografica,
continuità territoriale ecc.) se quel confine fosse già stabilito sulle mappe
politiche e diplomatiche dall’arbitraria linea di un cessate il fuoco di
sessant’anni fa? A che servirebbe dunque il negoziato? Chiamare confine quella
linea è un errore storico, un ostacolo politico e un nonsenso logico. Averlo
fatto per decenni, in ogni sede politica e giornalistica, non lo rende meno
insensato.»
[Da: Marco Paganoni, “Insegnare la storia d’Israele. Riflessioni
preliminari sull’esperienza con studenti italiani”, in: AA. VV., Il mio cuore è
a oriente. Studi di linguistica, filologia e cultura ebraica, Cisalpino Istituto
Editoriale Universitario, Milano, 2008]
PER UNA CORRETTA LETTURA DELLA
RISOLUZIONE ONU 242
La risoluzione Onu numero 242 approvata il 22 novembre
1967 è internazionalmente riconosciuta come la base giuridica dei negoziati tra
Israele e i vicini arabi. Essa fu il risultato di cinque mesi di intense
trattative. Ogni sua parola fu attentamente soppesata. Alcuni propagandisti,
tuttavia, diffondono quotidianamente una interpretazione errata della 242,
sostenendo che essa prescriverebbe il ritiro di Israele sulle linee del 4 giugno
1967. Quelle linee erano le linee di cessate il fuoco fissate dagli accordi
armistiziali del 1949, i quali dicevano espressamente che esse venivano
accettate dalle parti senza alcun pregiudizio per la futura sistemazione
territoriale. In un’intervista a Israel Radio del febbraio 1973 Lord Caradon,
colui che presentò la risoluzione 242 per conto della Gran Bretagna, mise in
chiaro che essa non prevedeva affatto l’obbligo per Israele di ritirarsi sulle
linee del 1967. “La frase essenziale e mai abbastanza ricordata – spiegò Lord
Caradon – è che il ritiro deve avvenire su confini sicuri e riconosciuti. Non
stava a noi decidere quali fossero esattamente questi confini. Conosco le linee
del 1967 molto bene e so che non sono un confine soddisfacente”. I sovietici,
gli arabi e i loro alleati fecero di tutto per inserire nella bozza di testo
della risoluzione la parola “tutti” davanti ai “territori” da cui Israele doveva
ritirarsi. Ma la loro richiesta fu respinta. Alla fine, lo stesso primo ministro
sovietico Kossygin contattò direttamente il presidente americano Lyndon Johnson
per chiedere l’inserimento della parola “tutti” davanti a “territori”. Anche
questo tentativo fu respinto. Kossygin chiese allora, come formula di
compromesso, di inserire l’articolo determinativo davanti a “territori” (“dai
territori” anziché “da territori”). Johnson rifiutò. Successivamente il
presidente americano spiegò la sua posizione: “Non siamo noi che dobbiamo dire dove le nazioni debbano tracciare tra di loro linee di confine tali da garantire a ciascuna la massima sicurezza possibile. È chiaro, comunque, che il ritorno alla situazione del 4 giugno 1967 non porterebbe alla pace. Devono esservi confini sicuri e riconosciuti. E questi confini devono essere concordati tra i paesi confinanti interessati”. Nel dibattito, il ministro degli esteri
israeliano Abba Eban chiarì la posizione di Israele: “Rispetteremo e manterremo
la situazione prevista dagli accordi di cessate il fuoco finché non verrà
sostituita da un trattato di pace tra Israele e i paesi arabi che ponga fine
allo stato di guerra e stabilisca confini territoriali concordati, riconosciuti
e sicuri. Questa soluzione di pace, negoziata in modo diretto e ratificata
ufficialmente, creerà le condizioni nelle quali sarà possibile risolvere i
problemi dei profughi in modo giusto ed efficace attraverso la cooperazione
regionale e internazionale”.
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