Tra Palestina ed Israele chi rischia è Abu Mazen
Missione compiuta. Il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, Abu Mazen, a Ramallah a dispetto della giornata insolitamente uggiosa ha annunciato che la “primavera palestinese” e’ nata, davanti ad una folla festante che per chi ha memoria storica ricordava tragicamente quella che accolse Yasser Arafat di ritorno da Camp David. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu a Gerusalemme ha convocato il “Consiglio dei sette”, la cui stessa esistenza getta un’ombra sulla sua capacità di leadership, per condividere con i più importanti membri della sua coalizione la soddisfazione per aver trasformato Barak Hussein Obama in Theodor Herzl e di aver piegato il Quartetto alle sue posizioni, negoziati senza pre-condizioni. Entrambi soddisfatti, i due leader, dei rispettivi discorsi davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Peccato che le loro parole suonano una orazione funebre per la morte del bene più prezioso: la speranza.
Ripercorriamoli questi “storici” discorsi. Abu Mazen, ha rispolverato tutto l’armamentario retorico palestinese contro Israele: potenza occupante, pulizia etnica, apartheid. Ha condannato il terrorismo, è vero, ma enfatizzando quello “di Stato” dei coloni. Ha parlato di radici musulmane e cristiane della terra che rivendica, tacendo su quelle ancora più antiche e profonde dell’ebraismo. Ha terminato con un gesto che ricorda quello del più fallimentare leader rivoluzionario della storia, Yasser Arafat, brandendo la richiesta di riconoscimento di uno Stato palestinese come fosse un ramoscello d’ulivo.
“Bibi” Netanyahu ha speso un terzo del suo lungo discorso per spiegare quanto disprezzasse la platea davanti alla quale parlava, “un teatro dell’assurdo” che condanna Israele e chiude gli occhi sulla Siria. Ha descritto il Medio Oriente come una minacciosa foresta popolata di coccodrilli islamisti, pronti a occupare ogni lembo da cui Israele si ritiri, dimenticando che grazie all’azione della leadership palestinese a Ramallah nessun attacco anti israeliano è stato lanciato negli ultimi anni dalla Cisgiordania. Ha chiarito, se ce ne fosse bisogno, che nei suoi sogni la sovranità del futuro Stato della Palestina non è molto diversa dall’autonomia di cui i palestinesi già godono nei territori.
Un doppio amen. Invece di tentare di costruire un ponte, i due leader hanno approfondito il solco che separa i loro popoli aiutati in questo dall’amministrazione Obama, che in due anni e mezzo e’ spregiudicatamente passata dal sostenere le richieste degli uni e sposare la posizione degli altri, la ricetta migliore per perdere la fiducia di entrambi.
I palestinesi hanno compiuto un azzardo diplomatico che potrebbe condurli in un vicolo cieco. L’Onu non darà loro lo Stato cui aspirano. E’ dubbio persino che la risoluzione presentata riesca ad avere i nove voti necessari in Consiglio di Sicurezza per costringere gli Stati Uniti a porre un imbarazzante veto. Abu Mazen dovrà accontentarsi del simbolico sì dell’Assemblea Generale. E poi? I duri populisti usati dal leader palestinese all’Onu mirano ad erodere il consenso di cui gode Hamas nella speranza che scenda a patti. Vero è che il movimento islamico e’ in difficoltà. Il protettorato di cui gode a Damasco è sempre più traballante. Dalla sua, però, ha i Fratelli Musulmani, che nell’Egitto del dopo Mubarak, sono destinati a contare. Il calcolo di Abu Mazen potrebbe rivelarsi sbagliato. Senza negoziato con Israele, nel medio periodo ad essere fagocitato dal coccodrillo islamista potrebbe essere proprio lui, il presidente palestinese e la leadership di Fatah che lo ha spinto ad imboccare la strada del riconoscimento all’Onu.
Poteva Benjamin Netanyahu fare diversamente? La risposta positiva è nello storico, quello sì, discorso di Ariel Sharon all’Assemblea dell’Onu del 15 settembre del 2005. “Vengo da Gerusalemme, la capitale del popolo ebraico per 3.000 anni – aveva esordito -. La terra di Israele e’ preziosa per me, per il popolo ebraico, più di ogni altra cosa (…). Lo dico per enfatizzare l’immenso dolore che sento in profondità nel mio cuore, riconoscendo che dobbiamo fare concessioni per raggiungere la pace tra noi e i palestinesi”. Parole pronunciate il giorno dopo la fine dell’amministrazione militare nella Striscia di Gaza. Il Medio Oriente di Ariel Sahron non era popolato da coccodrilli meno feroci di quelli odierni. Nelle strade di Israele era possibile ancora sentire l’eco delle esplosioni dei terroristi palestinesi che si facevano saltare in aria sugli autobus e nei ristoranti tra gli applausi dei loro leader e del loro popolo. Eppure, l’ex premier era giunto alla conclusione, al termine di una vita combattuta in trincea, che lo Stato palestinese e’ prima di tutto nell’interesse supremo di Israele. Quando l’ictus l’ha costretto al silenzio, era intento a costruire il consenso attorno ad uno storico compromesso. Netanyahu avrebbe potuto fin dall’inizio seguire i passi del suo acerrimo nemico: prendere l’iniziativa, non subirla, con gesti concreti e non solo parole.
L’esistenza di Israele in Medio Oriente è sempre stata minacciata. Lo Stato ebraico ha vinto contro ogni pronostico sfide esistenziali anche grazie alla parola magica del suo inno nazionale: tiqwa, speranza. Rimuoverla dall’orizzonte temporale in un Medio Oriente che cambia velocemente e’ un grave rischio.
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