1948: Israele e Palestina, la vera storia
Sabato 17 Settembre 2011
A sessanta anni dalla sua nascita, stabilita per il mezzo di uno strumento giuridico di auto-determinazione internazionalmente riconosciuto, Israele è l’unico stato al mondo che deve subire un costante attacco consistente nelle più strampalate teorie di cospirazione e “accuse del sangue” ( la falsa accusa cioè di usare sangue nei loro rituali); l’unico stato le cui politiche e azioni vengano ossessivamente condannate dalla comunità internazionale; l’unico stato il cui diritto d’esistere è costantemente dibattuto e sfidato non solo da suoi nemici arabi ma anche da alcuni segmenti della più avanzata opinione pubblica occidentale.
Nello scorso decennio, la concreta eliminazione della Stato ebraico è diventato un caso di scuola per molti di questi occidentali ben informati. La “one-state solution”, come viene chiamata, è una formula eufemistica che propone la sostituzione di Israele con uno stato, teoricamente l’intero territorio della Palestina storica, in cui gli ebrei sarebbero ridotti ad essere una minoranza permanente. Solamente questa soluzione, si afferma, può espiare il “peccato originale” della fondazione di Israele, un atto costruito (secondo le parole di un critico) sulle macerie della Palestina araba e ottenuta tramite il deliberato e aggressivo esproprio della sua popolazione natia.
Questa rivendicazione circa l’esistenza di un esproprio premeditato e il conseguente inizio della perdurante questione dei rifugiati palestinesi è, infatti, l’architrave dell’accusa sostenuta dalle cosiddette vittime di Israele e dai loro sostenitori occidentali. E’ un accusa che difficilmente poteva essere ignorata. Già a metà degli anni ’50, l’eminente storico americano J.C. Hurewitz intraprese una sistematica confutazione della teoria e le sue ricerche furono ampiamente confermate da successive generazioni di ricercatori e scrittori. Perfino Benny Morris, il più influente tra i “nuovi storici” revisionisti di Israele, e personaggio che si prodigò massimamente per stabilire l’esistenza del “peccato originale” di Israele, dovette a malincuore ammettere che non ci fu mai un “disegno” per rimuovere gli arabi palestinesi.
La recente opera di rimozione del segreto di stato su milioni di documenti risalenti al Mandato britannico(1920-1948) e agli albori d’Israele, precedentemente inaccessibili a generazioni di scrittori e ignorati, o distorti, dai “nuovi storici” dipingono un quadro storico molto più preciso. Questi documenti rivelano che la rivendicazione di esproprio non è solo completamente infondata, ma il contrario della verità. Ciò che segue è basato su nuove ricerche basate su questi documenti, i quali contengono molti fatti e dati che finora non erano stati pubblicati.
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A partire dai primi anni ’20, i capi degli palestinesi arabi, lontani dall’essere quegli sfortunati oggetti di un assalto predatorio sionista, furono, contro la volontà di gran parte dei loro compatrioti, coloro che intrapresero un’ininterrotta campagna al fine di annientare la ripresa di vitalità della nazione ebraica. La campagna culminò nel violento tentativo di fermare l’applicazione della risoluzione dell’ONU del 29 novembre 1947, la quale richiedeva la nascita di due stati in Palestina. Se questi leader e le loro controparti negli stati arabi vicini avessero accettato la risoluzione dell’ONU, non ci sarebbe stata alcuna guerra e nessuna diaspora.
La verità è che il movimento sionista fu sempre disponibile ad accettare l’esistenza nel futuro Stato ebraico di una consistente minoranza araba, che avrebbe partecipato senza discriminazioni “attraverso tutti settori della vita pubblica del paese”. Sono le parole di Ze’ev Jabotinsky, il padre fondatore di quella parte del Sionismo precursore del Partito Likud. In un famoso articolo del 1923, Jabotinsky affermò di essere pronto “ a prestare un giuramento che vincolasse noi e i nostri discendenti a non fare mai nulla contrario al principio dell’eguaglianza dei diritti, e che non tenteremo mai di espellere qualcuno”.
Undici anni dopo, Jabotinsky presiedette la stesura di una bozza di costituzione per la Palestina ebraica. Secondo le disposizioni della bozza, arabi e israeliani avrebbero condiviso sia le prerogative che i doveri dello Stato, compreso il servizio militare e civile. Ebrei e arabi avrebbero goduto dello stesso trattamento giuridico, e “in ogni gabinetto dove il primo ministro è un ebreo, il vice primo ministro sarebbe stato offerto ad un arabo e viceversa”.
Se questa fu la posizione della fazione più militante del movimento nazionale ebraico, la corrente maggioritaria del Sionismo non solo diede per scontato l’eguaglianza con la minoranza araba nel futuro Stato ebraico, ma si sforzò di promuovere la coesistenza arabo-israeliana. Nel 1919 Chaim Weizmann, allora l’emergente leader del movimento sionista, raggiunse un accordo di pace e cooperazione con l’emiro hashemita Faisal ibn Hussein, il vero capo del nascente movimento pan-arabo. Da allora fino alla proclamazione dello Stato d’Israele il 14 maggio 1948, il portavoce del movimento sionista s’incontro centinaia di volte con i leader arabi a tutti i livelli. Tra questi Abdullah ibn Hussein, il fratello maggiore di Faisal e fondatore dell’emirato della Transgiordania (in seguito il regno di Giordania), attuali ed ex-primi ministri della Siria, Libano, Egitto e Iraq, i consiglieri d più alto grado del re Abdul Aziz ibn Saud (fondatore dell’Arabia Saudita) e le elite arabe palestinesi di ogni estrazione.
Non più tardi del 15 settembre 1947, due mesi prima dell’approvazione della risoluzione di partizione dell’ONU, due inviati sionisti stavano ancora cercando di convincere Abdel Rahman Azzam, Segretario Generale della Lega Araba, che il conflitto palestinese “stava inutilmente assorbendo le migliori energie della Lega Araba”, e che sia arabi sia ebrei avrebbero grandemente beneficiato “ da politiche attive di cooperazione e sviluppo”. Dietro questa proposta risiedeva una antica speranza sionista: che cioè il progresso materiale apportato dagli insediamenti ebraici in Palestina avrebbe facilitato il cammino delle popolazioni arabe locali verso una riconciliazione permanente, se non addirittura una positiva attitudine al progetto di auto-determinazione ebraico. Come David Ben-Gurion, prossimo a diventare il primo primo ministro di Israele, affermò nel dicembre del 1947:
Se il cittadino arabo si sentirà a casa nel nostro stato… se lo stato lo aiuterà in modo veritiero e dedicato al fine di raggiungere il livello economico, sociale e culturale della comunità ebraica, allora la sfiducia araba si placherà di conseguenza e un ponte sarà costruito verso un alleanza semitica ebraica –araba.
Apparentemente, la speranza di Ben-Gurion si fondava su basi ragionevoli. Un flusso di immigrati ebrei e di capitali dopo la prima guerra mondiale stimolò la fino ad allora statica condizione economica della Palestina e migliorò la qualità della vita dei suoi abitanti arabi ben al di sopra del livello esistente negli stati arabi vicini. La crescita dell’industria e dell’agricoltura araba, in particolare nella produzione di agrumi, fu ampiamente finanziata dal capitale così ottenuto, e le conoscenze tecniche ebraiche contribuirono molto a sviluppare le coltivazioni arabe. Nei venti anni tra le due guerre mondiali, le piantagioni di agrumi di proprietà araba crebbero di sei volte così come fecero le terre dove crescevano le verdure, mentre il numero di uliveti aumentò di quattro volte.
Notevoli furono anche i progressi nel benessere sociale. Forse la cosa più significativa fu il drastico calo de tasso di mortalità tra la popolazione musulmana e le aspettative di vita crebbero dai 37,5 anni del 1926-27 ai 50 anni del 1942-1944 ( rispetto ai 33 dell’ Egitto). Il tasso di crescita naturale crebbe di un terzo.
Il fatto che nulla di tutto questo stesse accadendo nei vicini paesi arabi dominati dai britannici, per non dire dell’India, può essere spiegato solamente dal decisivo apporto degli ebrei al benessere socioeconomico del Mandato in Palestina. Le autorità britanniche lo riconobbero in un rapporto di una commissione d’inchiesta presieduta da Lord Peel:
Il generale effetto benefico dell’immigrazione ebraica sul benessere arabo è illustrato dal fatto che la crescita della popolazione araba è più marcata nelle aree urbane influenzate dallo sviluppo ebraico. Un paragone sui dati del censimento del 1922 e 1931 mostrano che, sei anni fa, l’aumento percentuale ad Haifa è stato dell’86%, a Jaffa del 62%, a Gerusalemme del 37%, mentre in città puramente arabe come Nablus ed Hebron solo del 7% e a Gaza ci fu una flessione del 2 %.
Se alla grande maggioranza dei palestinesi arabi fosse stato consentito di decidere per se stessi, essi sarebbero stati molto probabilmente soddisfatti di trarre vantaggio dalle opportunità loro offerte. Questo è reso evidente dal fatto che, per tutto il periodo del Mandato, i periodi di pacifica coesistenza furono maggiori rispetto alle esplosioni di violenza, e queste ultime furono opera solo di una piccola frazione di palestinesi arabi. Sfortunatamente sia per arabi che ebrei, i desideri e le speranze della gente comune non furono prese in considerazione, come avviene raramente nelle comunità autoritarie ostili alla nozione di società civile o alla democrazia liberale. Nel mondo moderno, inoltre, non furono i poveri e gli oppressi a guidare le grandi rivoluzioni o a compiere i peggiori atti di violenza, quanto piuttosto le avanguardie militanti tra le classi della società meglio educate e più benestanti.
Così fu per i palestinesi. Nelle parole del rapporto Peel:
Abbiamo rilevato che sebbene gli arabi abbiano beneficiato dagli sviluppi del paese dovuti all’immigrazione ebraica, questo non ha avuto alcun effetto di riconciliazione. Al contrario… con quasi matematica precisione il miglioramento della situazione economica in Palestina ha significato il deterioramento della situazione politica.
In Palestina, gli arabi comuni venivano perseguitati e uccisi dai più alto-locati ( i “migliori”) nella comunità per il crimine di “vendere la Palestina” agli ebrei. Nel frattempo, quegli stessi “migliori” si arricchivano impunemente. Il leale pan-arabista Abdel Hadi, che giurò di combattere “fino a quando la Palestina fosse posta sotto un libero governo arabo oppure fosse diventata un cimitero per tutti gli ebrei nel paese”, facilitò la cessione di 7500 acri al movimento sionista, e alcuni dei suoi parenti, tutte rispettate figure politiche e religiose, andarono un passo oltre, vendendo interi lotti di terreno. Così fecero molti componenti della famiglia Husseini, il preminente clan arabo palestinese durante il periodo del Mandato, incluso Muhammad Tahir, padre di Hajj Amin Husseini, il famigerato muftì di Gerusalemme.
Fu la preoccupazione da parte del muftì di consolidare la propria posizione politica la vera ragione del massacro del 1929 in cui 133 ebrei furono trucidati e altre centinaia feriti – esattamente come la lotta per la preminenza politica che innescò il più lungo periodo di violenza palestinese-araba nel periodo 1936-39. Questa fu illustrata come una rivolta nazionalista contro il dominio britannico e i rifugiati ebrei che allora stavano arrivando con i piroscafi in Palestina, scappando dalla persecuzione nazista. In realtà, essa fu un enorme utilizzo della violenza che vide molti più arabi che ebrei o inglesi uccisi da bande armate arabe, le quali repressero e abusarono della popolazione araba, cosa che costrinse migliaia di arabi a fuggire dal paese in quello che fu un assaggio dell’esodo del 1947-1948.
Alcuni palestinesi-arabi, infatti, preferirono reagire e combattere contro i loro istigatori, spesso in collaborazione con le autorità britanniche e l’Hagana, la più grande organizzazione di difesa ebraica. Altri cercarono rifugio nei quartieri ebraici. Nonostante la paralisi provocata dall’atmosfera di terrore e uno spietato boicottaggio economico, la coesistenza arabo ebraica continuò su molti livelli pratici perfino durante periodi di tale agitazione, e fu ampiamente restaurata in seguito al loro calmarsi.
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Di fronte a un tale scenario, è facilmente comprensibile il motivo per cui la maggior parte dei palestinesi non volle avere nulla a che fare, 10 anni dopo, con il violento tentativo dell’ Alto Comitato Arabo (AHC) guidato dal muftì, l’effettivo “governo” dei palestinesi arabi, di sovvertire la risoluzione ONU sulla partizione del 1947. Con il ricordo del periodo 1936 – 39 ancora vivo nelle loro menti, molti scelsero di restare fuori dai combattimenti. In men che non si dica, numerosi villaggi arabi ( e alcune aree urbane) stavano negoziando accordi di pace con i loro vicini ebrei; altre località attraverso il paese agirono in modo simile senza il beneficio, però, di un accordo formale.
Nemmeno si può dire che i palestinesi comuni evitarono di sfidare silenziosamente la loro leadership. Nei suoi numerosi viaggi per la regione, Abdel Qader Husseini, comandante del distretto di Gerusalemme e parente stretto del muftì, trovò la popolazione indifferente, se non ostile, alle sua ripetuta chiamata alle armi. Ad Hebron, egli non riuscì a reclutare un singolo volontario alla forza armata salariata che stava cercando di formare in quella città; i suoi sforzi nelle città di Nablus, Tulkarem e Qalqiliya ebbero scarsa fortuna. Gli arabi dei villaggi da parte loro, furono perfino meno ricettivi alla sue richieste. In un posto, Beit Safafa, Abdel Qader venne umiliato e cacciato via dai locali arrabbiati perché il loro villaggio era stato trasformato in un centro da dove partivano attacchi contro gli ebrei. Quei pochi che risposero al suo appello, lo fecero in gran parte al fine di ottenere armi gratuitamente per la loro protezione personale per poi tornarsene a casa.
C’era una motivazione economica in questa ricerca di pacificazione. Lo scoppio delle ostilità orchestrato dall’ AHC provocò un marcato calo nel commercio e un correlativo aumento dei prezzi dei beni di consumo necessari. Molti villaggi, che dipendevano per la loro sussistenza dagli ebrei o sulle città con popolazione mista, non videro alcuna buona ragione nell’appoggiare l’esplicito obiettivo dell’ AHC di sottomettere gli ebrei affamandoli. Tale era la contrarietà alla guerra che all’inizio del febbraio 1948, oltre due mesi dopo l’inizio della campagna di violenza istigata dall’ AHC, Ben-Gurion poteva affermare che “i villaggi, nella loro gran parte, erano rimasti ai margini”.
L’analisi di Ben Gurion fu condivisa da generale iracheno Ismail Safwat, comandante in capo dell’esercito di liberazione arabo (ALA), la forza volontaria araba che fu più combattiva nei mesi che precedettero la proclamazione d’indipendenza di Israele. Safwat lamentava che solamente 800 dei 5000 volontari addestrati dall’ALA provenissero dalla Palestina, e che la maggior parte avesse disertato prima di completare l’addestramento oppure immediatamente dopo. Fawzi Qawuqji, il comandante locale dell’ALA non fu meno caustico, trovando i palestinesi “poco affidabili, eccitabili e difficilmente controllabili, e in un conflitto armato virtualmente inutilizzabili”.
Questo punto di vista riassumeva la maggior parte delle percezioni contemporanee durante i fatali sei mesi di combattimenti seguiti all’approvazione della risoluzione sulla partizione. Anche quando questi mesi videro la quasi completa disintegrazione della società arabo palestinese, nessuno la descrisse come un sistematico esproprio degli arabi da parte d egli ebrei. Al contrario: con la risoluzione di partizione, per lo più vista dai capi arabi come “ sionista nell’ispirazione, sionista per principio, sionista nella sostanza e sionista nella maggior parte dei dettagli” (secondo le parole dell’accademico palestinese Walid Khalidi) e con quegli stessi leader brutalmente franchi nella determinazione di sovvertirne i contenuti con l’uso delle armi, non c’era alcun dubbio circa l’identità di chi aveva istigato lo spargimento di sangue.
Nemmeno si può affermare che gli arabi provarono a nascondere la loro responsabilità. Mentre gli ebrei si accingevano a preparare le fondamenta per il loro Stato nascente e contemporaneamente sforzandosi di convincere i loro compatrioti arabi che essi sarebbero stati (come aveva detto Ben-Gurion) “eguali cittadini, eguali in tutto senza alcuna eccezione”, i capi palestinesi promisero che “se la partizione si fosse realizzata, essa sarebbe stata raggiunta solo sopra i corpi degli arabi della Palestina, i loro figli e le loro donne”. Qawuqji “giurò di gettare tutti gli ebrei a mare”. Abdel Qader Husseini affermò che “il problema della Palestina sarà risolto solo con la spada; tutti gli ebrei devono lasciare la Palestina.”
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Essi e i loro colleghi istigatori arabi fecero del loro meglio affinché tali minacce si realizzassero, utilizzando tutti mezzi a loro disposizione. In aggiunta alle forze regolari come quelle dell’ALA, guerriglieri e gruppi terroristici provocarono distruzione sia tra non combattenti sia tra unità da combattimento ebraiche. Sparatorie, colpi dei cecchini, imboscate, attentati esplosivi che nel mondo di oggi verrebbero considerate come crimini di guerra, erano all’ordine del giorno nelle vite dei civili. “ Gente innocente e inoffensiva, che pensa ai propri affari” scrisse il console generale americano a Gerusalemme Robert Macatee nel dicembre 1947,
viene colpita quando è sugli autobus, camminando per le strade e pallottole vaganti trovano persone innocenti perfino mentre dormono nei loro letti. Un donna ebrea, madre di cinque figli, fu colpita a Gerusalemme mentre stava appendendo i panni sul tetto. L’ambulanza che la stava trasportando d’urgenza all’ospedale fu mitragliato e, infine, chi partecipava al suo funerale fu attaccato e uno ad uno accoltellati fino alla morte.
Con l’aumentare del numero degli scontri, i civili arabi soffrirono a loro volta, e l’occasionale atrocità innescò cicli di violenza su larga scala. Così, l’uccisione nel dicembre del 1947 di sei lavoratori arabi, vicino alla raffineria di Haifa, perpetrata dal piccolo gruppo ebraico sotterraneo IZL fu seguito dal massacro immediato di 39 ebrei da parte dei loro colleghi arabi, così come l’uccisione di circa 100 arabi nella battaglia per il villaggio di Deir Yasin nell’aprile del 1948 fu “vendicato” nel giro di pochi giorni con l’uccisione di 77 tra infermiere e dottori ebrei sulla strada per l’ospedale Hadassah sul monte Scopus.
Tuttavia, mentre la leadership e i media ebraici descrissero questi eventi scioccanti per quello che in realtà erano, a volte non divulgando alcuni particolari al fine di evirare il panico e tenere la porta aperta alla riconciliazione arabo-ebraica, gli arabi dal canto loro non solo ingigantirono il numero delle vittime ad enormi proporzioni ma ne inventarono anche numerose che, però, non avvennero mai. La caduta di Haifa (21-22aprile) per esempio fece sorgere voci di massacri su larga scala, che circolarono per tutto il Medio Oriente e raggiunsero le capitali occidentali. Allo stesso modo, voci false furono fatte girare dopo la caduta di Tiberias (18 aprile), la battagli per Safed (nei primi di maggio) e a Jaffa dove alla fine di aprile il sindaco s’inventò un massacro di “centinaia di uomini e donne arabe”. I resoconti nei media arabi furono particolarmente scandalosi, tra cui la descrizione di fantomatici tatuaggi di falci e martelli sulle braccia dei combattenti IZL e accuse di distruzioni e stupri.
Fomentare un atmosfera di paura servì senza dubbio per raccogliere il più ampio consenso possibile a favore della causa palestinese e proiettare sugli ebrei l’immagine di brutali predatori. Ma fu anche un boomerang disastroso, diffondendo il panico all’interno della società palestinese. Questo, a sua volta aiuta a spiegare perché nell’aprile 1948 dopo quattro mesi di apparente progresso, questa fase dello sforzo bellico arabo fallì (sebbene all’inizio fosse la seconda, più ampia e prolungata fase che coinvolse le forze dei cinque stati arabi che avevano invaso la Palestina a metà maggio). Questo perché non solo la maggior parte dei palestinesi avevano rifiutato di unirsi alle ostilità, ma moltissimi avevano deciso di andarsene, lasciando le loro case per altri località nel paese o fuggendo nelle vicine terre arabe.
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In verità, molti erano partiti prima ancora dell’inizio delle ostilità e ancor di più fuggirono prima che la guerra raggiungesse la propria porta di casa. “Gli arabi stanno lasciando il paese con le loro famiglie in un numero considerevole e c’è un esodo dalle città miste dei centri arabi rurali” riferì Alan Cunningham l’Alto Commissario britannico nel dicembre 1947, aggiungendo un mese dopo che “ il panico tra la classe media persiste e vi è un costante esodo di chi si può permetter di lasciare il paese”.
Facendo eco a questi rapporti, le fonti d’intelligence di Hagana riportarono come a metà dicembre “ vi fosse una frenesia di andarsene in interi villaggi arabi” Prima della fine del mese, molte città palestinesi arabe si lamentavano dei gravi problemi creati dall’enorme flusso di gente dei villaggi e richiedevano all’AHC di aiutarli a trovare una soluzione a quella difficile situazione. Perfino i governi di Siria e Libano erano allarmati da questo precoce esodo, esigendo che l’AHC incoraggiasse i palestinesi a rimanere e combattere.
Ma non vi fu nessuno immediato incoraggiamento, né dall’AHC né da nessun altro. Infatti vi era una totale mancanza di coesione nazionale, per non dire di un senso condiviso di destino. Le città grandi e piccole agirono come se fossero unità a se stanti, pensando ai propri bisogni ed evitando qualunque piccolo sacrificio a favore delle altre città. Molti “comitati nazionali” ( i capi locali cioè) proibirono l’esportazione di alimenti e bevande dalle città ben rifornite verso le città e i villaggi più isolati. I commercianti arabi di Haifa si rifiutarono di alleviare una grave mancanza di farina a Jenin, mentre Gaza si rifiutò di esportare uova e pollame a Gerusalemme; ad Hebron guardie armate controllavano tutte le auto in partenza. Allo stesso tempo vi era una estesa attività di contrabbando, specialmente nelle città a popolazione mista, con prodotti alimentari che andavano verso i quartieri ebraici e viceversa.
La mancanza di una comune solidarietà fu similarmente evidenziata dal pessimo trattamento riservato alle centinaia di migliaia di rifugiati sparpagliati per il paese. Non solo non vi fu alcuno sforzo collettivo per alleviare la loro situazione, o anche una più esteso senso d’empatia che valicasse i confini del proprio vicinato, ma molti rifugiati furono maltrattati da chi temporaneamente li ospitava e furono soggetti al ridicolo e al disprezzo per la loro supposta codardia. Secondo un rapporto dell’intelligence ebraica: “ i rifugiati sono odiati ovunque vadano”.
Perfino le ultime vittime della guerra – i sopravissuti di Deir Yasin- non sfuggirono alla loro parte di maltrattamenti. Trovando rifugio nel vicino villaggio di Silwan molti furono presto ai ferri corti con i locali, al punto che il 14 aprile, appena cinque giorni dopo la tragedia, una delegazione di Silwan contattò gli uffici del AHC a Gerusalemme domandando che i sopravvissuti venissero trasferiti da qualche altra parte. Tuttavia nessuno aiuto per trovare loro una sistemazione fu immediato.
Alcune località si rifiutarono totalmente di accettare i rifugiati, per paura di gravare troppo sulle esigue risorse esistenti. Ad Acre le autorità impedirono di sbarcare agli arabi che fuggivano da Haifa; a Ramallah, la popolazione prevalentemente cristiana organizzò la propria milizia – non tanto per combattere gli ebrei quanto per impedire nuovi arrivi di musulmani. Molti sfruttarono la difficile situazione dei rifugiati in modo spregiudicato, in particolare approfittandosi di loro per quel che riguarda le necessità di base come trasporti e alloggi.
Nonostante tutto, i palestinesi continuarono a fuggire dalle loro case in numero sempre crescente. Ai primi di aprile circa 100.000 se n’erano già andati sebbene gli ebrei fossero ancora subendo dal punto di vista militare e non fossero certo in una posizione per costringere la popolazione araba ad abbandonare le loro case. ( Il 23 marzo, più di quattro mesi dopo l’inizio delle ostilità, il comandante in capo dell’ ALA, Safwat, notò con una certa sorpresa che gli ebrei “non hanno finora attaccato un solo villaggio arabo, se non in risposta ad una provocazione”). Con la dichiarazione d’indipendenza d’Israele il 14 maggio, il numero di rifugiati arabi era aumentato di tre volte. Persino allora, nessuno tra i 170.000-180.000 arabi che scapparono dai centri urbani e solo alcuni tra i 130-160.000 dai villaggi che avevano lasciato le loro case fu costretto dagli ebrei ad abbandonare le loro case.
Le eccezioni avvennero al culmine delle battaglie e furono dovute a considerazioni del caso di natura militare – ridurre il numero di perdite tra i civili, negare postazioni ai combattenti arabi ove non fossero disponibili forze ebraiche sufficienti per respingerli – piuttosto che per calcolo politico. Inoltre questi episodi furono accompagnati dagli sforzi di prevenire la fuga e incoraggiare il ritorno di chi lo aveva già fatto. Per citare un solo esempio, all’inizio di aprile un delegazione ebraica, comprendenti alti consiglieri sugli affari arabi, notabili locali e sindaci con stretti contatti con le località arabe vicine attraversarono dei villaggi arabi nella zona costiera, che si stava svuotando ad un passo impressionante, nel tentativo di convincere i loro abitanti a rimanere.
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Quello che più impressiona di questi sforzi da parte degli ebrei, è che avvennero in un momento in cui un enorme numero di palestinesi arabi erano “spinti” lontano dalle loro case proprio dai loro stessi capi e dalle forze militari arabe, sia che ciò fosse dovuto a considerazioni di natura militare sia per evitare che essi divenissero cittadini del nascente Stato ebraico. Nel più grande esempio in termini di dimensioni e notorietà, a decine di migliaia di arabi fu ordinato di lasciare la città di Haifa in base alle istruzione dell’AHC, nonostante gli strenui sforzi degli ebrei nel persuaderli a restare. Solo alcuni giorni prima alla comunità araba di 6000 persone di Tiberias toccò la stessa sorte, di essere cioè costretti dai propri capi a lasciare le loro case, in contrasto ai desideri degli ebrei locali. A Jaffa, la più grande città araba in Palestina, il municipio organizzò il trasferimento di migliaia di residenti sia per aria che per mare; a Gerusalemme l’AHC ordinò il trasferimento di donne e bambini, e un gruppo di capi locali spinse i residenti fuori dai propri quartieri.
Decine di migliaia di villaggi rurali furono sgombrati allo stesso modo in seguito all’ordine dell’AHC, di milizie locali arabe o dell’ALA. Entro poche settimane dall’arrivo di questa ultima in Palestina nel gennaio 1948, voci circolavano di ordini segreti rivolti agli arabi che vivevano in aree prevalentemente ebraiche di lasciare i loro villaggi al fine di usarli per scopi militari e per ridurre il rischio di diventare ostaggio degli ebrei.
Con l’inizio di febbraio questo fenomeno si era diffuso nella maggior parte del paese. Ottenne una considerabile spinta in aprile e maggio quando le forze dell’ALA e AHC erano ormai generalmente in rotta. Il 18 aprile, l’ufficio dell’ intelligence dell’ Hagana a Gerusalemme riportò la notizia di un nuovo ordine generale che ordinava di rimuovere le donne e i bambini da ogni villaggio in vicinanza alle località ebraiche. Dodici giorni dopo, la sua controparte ad Haifa riferì di un comando dell’ALA di evacuare tutti i villaggi arabi tra Tel Aviv e Haifa anticipando una nuova generale offensiva. Agli inizi di maggio, con l’intensificarsi degli scontri nella Galilea orientale, agli arabi locali venne ordinato di trasferire donne e bambini dalla zona di Rosh Pina, mentre nel sotto-ditretto di Gerusalemme, la Legione Araba Transgiordana diede l’ordine di sgomberare molta gente dai villaggi.
Per ciò che concerne il destino dei leader arabi, i quali misero i loro riluttanti connazionali su una traiettoria di collisione con il Sionismo a partire dagli anni ’20 e ’30 e che ora gli avevano trascinati indifesi in un conflitto mortale, essi si affrettarono a lasciare la Palestina e rimanendovial di fuori nel momento più critico. Seguendo l’indicazione di questi pezzi grossi, i capi locali si affrettarono in massa a lasciare il paese. L’Alto Commissario Cunningham riassunse ciò che stava accadendo con tipico sarcasmo britannico:
Voi dovreste sapere che il crollo del morale arabo in Palestina è in qualche modo dovuto all’aumentata tendenza di coloro che dovrebbero condurli a lasciare il paese… per esempio, a Jaffa il sindaco si è preso 4 gironi di vacanza 12 giorni fa e non ha più fatto ritorno, e metà dei componenti del comitato nazionale è partito. Ad Haifa i componenti arabi del municipio sono partiti tempo fa; i due capi dell’ esercito di liberazione araba (ALA) hanno lasciato il paese durante la recente battaglia. Ora anche il capo magistrato arabo è partito. In tutte le parti del paese la classe effendiha continuato la propria evacuazione in un considerabile periodo di tempo e il fenomeno sta accelerando.
Arif al-Arifun, importante politico arabo durante il Mandato e il più autorevole tra gli storici palestinesi, descrisse questa prevalente atmosfera : “Ovunque uno andasse nel paese si sentiva ripetere questo: dove sono tutti i capi che dovrebbero mostrarci la strada? Dov’è l’AHC? Perché i suoi membri sono in Egitto in un momento in cui la Palestina, il loro paese, ha bisogno di loro?”
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Muhammad Nimr al-Khatib, un capo palestinese arabo durante la Guerra del 1948, riassunse la situazione con queste parole: “I palestinesi ebbero gli Stati arabi vicini che aprirono i loro confini e le loro porte ai rifugiati, mentre gli ebrei non avevano alternative se non trionfare oppure morire”.
Questa è abbastanza vero per gli ebrei, ma dimentica il motivo della fuga dei rifugiati e radicalmente falsifica la verità sulla loro ricezione altrove. Se non ricevettero la solidarietà dai loro compatrioti a casa, la reazione attraverso il mondo arabo fu, se possibile, ancora più aspra. Ci furono ripetuti richiami per il ritorno forzato dei rifugiati, o per lo meno dei giovani uomini pronti e arruolabili, molti dei quali arrivarono sotto la (falsa) scusa di diventare volontari nell’ALA. Con l’approssimarsi della fine del Mandato, il governo libanese rifiutò di rilasciare visti d’ingresso ai palestinesi maschi tra i 18 e 50 anni e ordinò a tutti gli “uomini abili e in salute” che fossero già entrati nel paese di registrarsi in modo ufficiale oppure essere considerati degli immigrati clandestini ed affrontare pienamente la risposta della legge.
Il governo siriano prese provvedimenti ancora più stringenti, proibendo l’accesso sul proprio territorio dei maschi palestinesi tra i 16 e 50 anni. In Egitto, una gran numero di manifestanti marciarono verso la sede della Lega Araba del Cairo presentando una petizione che prevedeva “per ogni palestinese abile e in condizione di maneggiare armi il divieto di rimanere all’estero”. Tale era il risentimento contro i palestinesi rifugiati che il direttore dell’istituto di educazione religiosa al-Azhar al Cairo, probabilmente la più importante autorità islamica, si sentì in dovere di emettere un decreto che faceva della protezione dei rifugiati un dovere religioso.
Il disprezzo per i palestinesi crebbe con il tempo. “La paura ha colpito i palestinesi arabi e sono scappati dal loro paese”, commentò Radio Baghdad la sera precedente l’invasione pan-araba di metà maggio del neonato stato d’Israele. “Queste sono parole dure veramente, tuttavia sono vere”. Il ministro degli interni libanese ( e futuro presidente) Camille Chamoun usò termini più delicati , affermando che “ il popolo di Palestina, nella loro precedente lotta all’imperialismo e al Sionismo, dimostrarono di meritare l’indipendenza” ma “in questo momento decisivo della lotta non sono più degni allo stesso modo”
Non c’è da sorprendersi allora che così pochi tra i rifugiati palestinesi avessero biasimato il loro crollo ed diaspora sugli ebrei. Durante una missione di ispezione nel giugno 1949 Sir John Troutbeck, capo dell’Ufficio del Medio Oriente britannico al Cairo, e non un amico d’Israele o degli ebrei, fu sorpreso nelloscoprire che mentre i rifugiati
non esprimono risentimento contro gli ebrei ( o contro gli americani o contro di noi ) parlano con grandissima amarezza degli egiziani e degli altri stati arabi. “Noi sappiamo che è il nostro nemico” diranno, e si riferiscono ai loro fratelli arabi che, dichiarano, gli persuasero senza necessità a lasciare le loro case… Ho perfino sentito che molti dei rifugiati darebbero il benvenuto agli ebrei se fossero in procinto di conquistare il loro distretto.
Sessanta anni dopo il loro esodo, i rifugiati del 1948 e i loro discendenti rimangono negli squallidi campi dove sono stati tenuti per decenni dai loro compatrioti arabi, allevati nell’odio e in false speranze. Nel frattempo, i loro precedenti capi hanno sperperato tutte le successive opportunità d’indipendenza.
É davvero una tragedia per i palestinesi che i due leader che hanno segnato il loro sviluppo nazionale nel corso del ventesimo secolo – Hajj Amin Husseini eYasser Arafat, l’ultimo dei quali dominò la politica palestinese dalla metà degli anni ’60 fino alla morte nel 2004- furono dei megalomani estremisti accecati dall’odio anti-ebraico e profondamente ossessionati dalla violenza. Se il muftì avesse scelto di guidare il suo popolo verso la pace e la riconciliazione con i loro vicini ebrei, come egli stesso promise alle autorità britanniche che lo nominarono alla sua posizione di alto rango agli inizi degli anni ’20, i palestinesi avrebbero avuto nel 1948 il loro stato indipendente su di una consistente parte del Mandato della Palestina, e si sarebbero risparmiati la traumatica esperienza della diaspora e dell’esilio. Se Arafat avesse posto l’OLP sin dall’inizio su di un percorso di pace e riconciliazione, anziché renderla una delle organizzazione terroristiche con un numero di omicidi al proprio attivo tra più alti nei tempi moderni, uno Stato palestinese avrebbe potuto essere edificato alla fine degli anni ‘60 o agli inizi degli anni ’70, o nel 1979 come corollario al trattato di pace tra Egitto e Israele, o nel maggio 1999 come parte del processo di Oslo, o infine proprio in ultima istanza al summit del luglio 2000 di Camp David.
Invece, Arafat trasformò i territori posti sotto il suo controllo negli anni ’90 in un vero e proprio stato del terrore da cui egli lanciò una guerra totale ( la “intifada al-Aqsa”) subito dopo aver ricevuto l’offerta di uno stato indipendente palestinese nella striscia di Gaza e nel 92% della Cis-Giordania, con Gerusalemme Est come sua capitale. Nel corso della sua azione, egli sottopose, la popolazione della Cis-Giordania e della Striscia di Gaza ad un regime repressivo e corrotto nella peggiore tradizione della dittature arabe e sprofondò i loro standard di vita a livelli mai prima raggiunti.
Ciò che rende tutta questa situazione ancora più irritante è il fatto che Hajj Amin ed Arafat, tutt’altro che sfortunate aberrazioni, furono classici esempi di leader cinici e auto-referenziali prodotti dal sistema politico arabo. Proprio come la leadership palestinese durante il Mandato non ebbe scrupoli nell’incitare i propri concittadini contro il Sionismo e gli ebrei, mentre s’imbottiva le proprie tasche dei frutti dell’imprenditorialità ebraica, così i funzionari dell’OLP utilizzarono miliardi di dollari donati dagli stati arabi ricchi di petrolio e, durante l’era di Oslo, dalla comunità internazionale, per finanziare i loro lussuosi stili di vita mentre il palestinese medio si arrangiava come poteva per guadagnarsi da vivere.
Sei decenni dopo che il muftì e i suoi tirapiedi, rifiutando la risoluzione sulla partizione dell’ONU, condannarono la propria gente a vivere senza uno stato, le loro irresponsabili decisioni sono ripetute dalla presente generazione di leader palestinesi. Questo si applica non solo ad Hamas, che nel gennaio 2006 ha sostituito l’OLP alla guida dell’Autorità Palestinese, ma anche alla cosiddetta leadership moderata palestinese – a partire dal Presidente Mahmoud Abbas fino ad Ahmad Qureia (negoziatore degli Accordi di Oslo del 1993) e a Saeb Erekat, al primo ministro Salam Fayad – che si rifiuta di riconoscere l’esistenza stessa d’Israele come uno Stato ebraico e insiste nella piena attuazione del “diritto di ritorno”(dei rifugiati).
E così è per gli anti-sionisti occidentali che in nome della giustizia, nientemeno, richiedono oggi non una nuova e fondamentalmente diversa leadership araba, ma di smantellare lo Stato ebraico. Solo quando queste indoli cambieranno, i palestinesi arabi potranno realisticamente sperare di porsi alle spalle questa catastrofe auto-inflitta.
Efraim Karsh è a capo degli Studi Mediterranei del King’s College, University of London, e di recente autore de “ Imperialismo islamico: una Storia” (Yale) Questo articolo appare nel numero di maggio di Commentary.
(traduzione di Frederick Dooley)
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