Parashat Haiè Sarà

“E questi sono gli anni della vita di Ishmael: cento anni, e trenta anni e sette anni” (Genesi XXV, 17)

Nel Talmud (TB Meghillà 16b-17a) questo verso viene utilizzato in maniera piuttosto interessante. Forse la domanda di partenza dovrebbe essere: come mai la Torà, tanto parsimoniosa nell’uso delle parole, segnala qui l’età di Ishmael in punto di morte?

Sapere l’età di Ishmael è assolutamente necessario perché è l’unico dato che può permettere di sapere l’età di Jacov nel momento in cui egli fugge dalla casa paterna alla volta della Mesopotamia. Secondo la Tradizione Jacov viene punito per aver abbandonato il padre: gli anni in cui Jacov vive lontano dal padre corrispondono agli anni in cui Josef sarà lontano da Jacov. In effetti il conto non torna esattamente: avanzano 14 anni. Senza entrare nel complesso calcolo che affronta il Talmud, diremo che i maestri ricavano che per 14 anni Jacov ha studiato Torà nella Yeshivà di Ever. Dal fatto che Jacov venga punito per tutti gli anni della sua assenza dalla casa paterna tranne che per gli anni in cui ha studiato Torà, i Maestri imparano l’importantissimo principio in base al quale lo studio della Torà è più importante dell’onore che si deve ai genitori.

Tutto questo comunque non sarebbe possibile se la Torà non ci dicesse a che età muore Ishmael visto che si ricava in un altro verso che la morte di Ishmael coincide con la fuga di Jacov.

Questo non è che uno dei tanti versi apparentemente del tutto superflui che invece permettono di ricavare importanti messaggi come questo principio che ha importanti ripercussioni halachike (legali).

In questa Parashà però, la morte di Ishmael non è l’unica morte che viene ricordata. La Parashà si apre infatti con la morte di Sarà e si chiude con la morte di Avraham, narrata appena prima della morte di Ishmael. È una Parashà? nella quale si chiude effettivamente un epoca. Il compito di Avraham si sta concludendo ed il primo patriarca si appresta a lasciare ad Izchak la guida dell’idea monoteistica.

Prima di morire però, Avraham si deve accertare che Izchak sia in grado di proseguire il suo compito in maniera degna. Ecco quindi che decide di trovare moglie ad Izchak. Era già chiaro ad Avraham, forse proprio per aver vissuto con un personaggio dello spessore di Sarà nostra madre, che la chiave per la sopravvivenza della Torà è nella famiglia. Izchak ha bisogno di una moglie e Avraham sa che non è possibile trovare una moglie adatta ad Izchak in Erez Canaan. Il luogo giusto ? La sua casa paterna in Mesopotamia. Avraham è vecchio e non può affrontare il viaggio ed Izchak non può uscire da Erez Israel perché è stato consacrato come “sacrificio” (vedi Parashà precedente). Avraham manda allora il fido servo Eliezer. Proprio del viaggio di Eliezer si occupa prevalentemente questa Parashà.

La celebre storia del servo che incontra Rivkà è narrata dal testo addirittura due volte. La prima all’avvenire dei fatti, la seconda nel resoconto che Eliezer fa alla famiglia di Rivkà. Meravigliati dal fatto che questo racconto viene narrato due volte mentre molte regole importanti (come anche il principio di cui abbiamo parlato in principio) vengono solo accennate o addirittura devono essere ricavate tra le righe del testo, i Maestri esclamano: “È più cara a D-o la conversazione dei servi dei patriarchi che gli insegnamenti dei loro figli.”

È vero che dal doppio racconto di Eliezer, e soprattutto dalle differenze nei due racconti, si imparano molte cose importanti, ma, appurato che la Torà è principalmente un libro di Legge, sembra assurdo dilungarsi tanto quando poi per leggi importanti vi sono solo accenni.

Eppure i fatti parlano chiaro e i Maestri non possono che confermare con la loro espressione l’importanza del racconto di Eliezer. Soprattutto della sua conversazione, ossia della seconda versione del racconto.

Dobbiamo inoltre ricordare che Eliezer è l’unico dei servi dei patriarchi di cui si parla espressamente, quindi il detto dei Maestri si riferisce principalmente a lui.

Perché la Torà ha questo strano approccio nello spazio che dedica ai vari avvenimenti?

Una delle possibili risposte si trova proprio nella seconda versione del racconto di Eliezer.

“E dissi al mio Signore: ‘Forse la donna non vorrà seguirmi.” (Genesi XXIV, 39)

Rashì (in loco) sottolinea che la parola “forse” (ulai) è scritta qui in forma difettiva (manca una vav) tanto che è possibile leggerla anche “elai”, a me, per me.

In questa maniera la Torà ci rivela la speranza segreta di Eliezer.

Eliezer era, secondo la Tradizione, un convertito. Egli aveva seguito il suo padrone non solo fisicamente ma anche spiritualmente diventando un dotto di Torà. Avraham anche lo considerava molto, tanto da farlo responsabile di tutti i suoi averi. Eliezer aveva una figlia. Quale poteva essere il sogno di Eliezer se non il fatto che sua figlia sposasse Izchak? Inconsciamente lo pensa sin dall’inizio chiedendo al padrone che cosa fare in caso di fallimento. Nella pratica egli lo rivela a se stesso solo dopo che si è reso conto che il Signore aveva già predisposto tutto sin dall’inizio. In quel “forse” c’è un “a me”.

Eliezer aveva tutto da guadagnare fallendo la sua missione ed invece si piega al suo padrone e soprattutto al Signore, Padrone del suo padrone.

Abbiamo parlato la scorsa settimana della “legatura di Izchak”, la prova suprema di Avraham. Questa è la settimana della prova suprema di Eliezer. Andare contro i suoi interessi per osservare la volontà di Avraham che aveva fatto sua la volontà del Signore.

È una prova diversa, è la prova di chi non ha udito la Voce del Signore. È la prova di chi si deve fidare della voce del Maestro. È la nostra prova quotidiana: fidarci dei Maestri ed andare contro i nostri “apparenti” interessi in ottemperanza dell’interesse supremo, servire il Signore.

Questa è la Parashà dove un ebreo qualsiasi, addirittura un ebreo per scelta, sacrifica i suoi desideri dinanzi all’ordine del suo Maestro.

Questo il grande messaggio della Torà che nella scelta degli spazi penalizza molte mizvot e beneficia Eliezer, il servo di Avraham.

Una mizvà si può ricavare anche da una sola parola. Ci vogliono due racconti però per dimostrare come Eliezer si pieghi alla volontà Divina in perfetta buona fede. Solo quando racconta i suoi eventi si rende conto, e lo ammette, che in fondo avrebbe sperato di non riuscire.

I figli dei Patriarchi si affaticheranno a ricavare le leggi da poche parole della Torà, ma Eliezer ed il suo esempio si meritano quasi una Parashà intera.

L’atteggiamento di Eliezer, in fondo, è la condizione necessaria all’osservanza di ogni mizvà.

Shabbat Shalom

Jonathan Pacifici

“E disse: “Signore, D-o del mio signore Avraham, per favore fai capitare per caso dinanzi a me, e fai della misericordia con il mio signore Avraham”. (Genesi XXIV,12)

L’impresa di Eliezer, il fido servo di Avraham, è il tema principale della nostra Parashà. Elemento centrale di una Parashà speculare che si apre con la morte e la sepoltura di Sarà e si chiude con la morte e la sepoltura di Avraham, la storia di Eliezer rappresenta un caso unico dal punto di vista narrativo nell’intera Torà. Il racconto è infatti ripetuto due volte (ed il verso chiave addirittura tre) cosa che incuriosisce i Saggi tanto da far affermare a R.Achà (Bereshit Rabbà 60,1): “È più bella [gradita] la conversazione dei servi dei Patriarchi rispetto alla Torà dei (loro) figli”. Di questo argomento ci siamo occupati lo scorso anno e pertanto non ci dilungheremo sull’argomento. La missione di Eliezer, così difficile in effetti, è particolarmente semplice da enunciare: trovare una ragazza adatta ad Izchak. Una volta arrivato ad Aram Naaraim il servo si ferma alla sorgente d’acqua, appena fuori alla città. Lì egli prega il Signore di far riuscire la sua impresa e stabilisce un segno (che in realtà è un esame psicologico) per capire quale sia la ragazza giusta. La strana frase con la quale il servo introduce la sua preghiera (che abbiamo citato all’inizio) suscita la curiosità di Don Izchak Abravanel: che cosa chiede Eliezer, un intervento Divino o un evento casuale? Abravanel sottolinea la differenza che c’è tra le due cose. Una cosa che è decisa ed operata dal Signore non è casuale! Eppure sembra che il servo si contraddica chiedendo al Signore di intervenire facendo avvenire casualmente un evento. La Prof. Nechama Leibovitch (Iunim Chadashim al Sefer Bereshit pp. 167-170) confronta questa strana preghiera con un altro passo della Bibbia. Nel primo Libro di Samuele (VI, 7-9) i Filistei, che hanno predato l’Arca Santa e che sono stati afflitti da grandi punizioni Divine, vogliono capire la causa dei loro mali. Essi pongono l’Arca su un carro e decidono che se le giovenche procederanno in una particolare direzione è il Signore D-o d’Israele che li punsice, altrimenti si tratta di un caso. “E sapremo che non è la mano del Signore che ci ha colpito, è stato per noi un caso.” (Samuele i VI,9) Iechezkel Khaufman (“Toldot haEmunà haIsraelit”, v.2) sottolinea la potere che gli antichi attribuivano al caso. Tutte le forme di idolatria ponevano il “Fato” sopra agli stessi dei. Nella stessa scia, dice la Leibovitch, va letto il brano in Samuele. I Filistei non hanno detto: “O viene dal Signore D-o d’Israele o viene dal dio X filisteo”, niente affatto. Hanno detto: “O viene dal Signore D-o d’Israele oppure è un caso.” La Torà ripudia questo modo di pensare in maniera totale: niente è fuori dalla giurisdizione del Signore! Il caso non esiste, tantomeno il fato. E lo stesso Maimonide dice che tutta la natura è un continuo manifestarsi di miracoli (ossia interventi) Divini. Tutto è miracolo, tutto è gestito da D-o e la sorte non esiste. Ecco quindi che Eliezer, che era un grande dotto di Torà, (cfr. Rashì su Genesi XV,2) è ben consapevole dell’inconsistenza della casualità. Che ‘caso’ può essere una cosa che si è espressamente richiesta al Signore? L’intento di Eliezer è quindi quello di chiedere sì al Signore che faccia riuscire la sua impresa, ma egli riconosce che anche quello che può sembrare un caso, o meglio ciò che nella casa di Rivkà certamente definiranno un caso, lui lo riconosce come intervento diretto del Santo benedetto Egli sia. Il ripudio del Fato da parte di Eliezer è particolarmente importante se lo si proietta sulla sua impresa. Una volta eliminata la casualità, la sorte ed ogni forma di incertezza dalla vita umana ed ebraica in particolare, ne risulta che è solo il Signore che gestisce la storia ed Egli, benedetto sia, lo fa in rapporto al comportamento umano, anche se non sempre ciò è evidente. Il comportamento umano, le buone azioni, l’osservanza delle mizvot, diventano allora gli unici elementi rilevanti dal punto di vista umano: esiste un modo per decidere il proprio futuro, osservare le mizvot. Proprio per questo la ‘prova’ alla quale sottopone Rivkà è un test comportamentale più che un ‘tirare a sorte’, cosa proibita dalla halachà. Generalmente noi non ci soffermiamo sulla ricchezza dei versi di questa Parashà, eppure da un confronto incrociato tra le due versioni della storia escono fuori tanti elementi interessanti. Eliezer voleva che Rivka desse un po’ da bere ai cammelli, ma la ragazza li abbevera “fino a che non finiscono di bere”. È ben noto che i cammelli, le navi del deserto possono sopravvivere senza acqua per molti giorni ma poi debbono ricostituire le scorte alla prima occasione. I dieci cammelli di Avraham, dopo un viaggio dalla Terra d’Israle alla Mesopotamia avevano bisogno di quantità notevoli d’acqua. L’azione di Rivkàva inquadrata per quello che è: numerose ore di pesante lavoro fisico per abbeverare i cammelli di uno sconosciuto! Un gesto di ospitalità unico, unica discriminante per renderla adatta ad essere la nuova padrona di casa in una casa che della ospitalità aveva fatto la sua peculiarità. La nostra Parashà proprio di questo si occupa: di materialità, dei problemi materiali della vita.

Si apre con un problema che è rimasto nella coscienza di ogni ebreo: acquistare un posto al cimitero. Ed Avraham lo paga e lo paga caro. Poi la difficoltà della vedovanza, la preoccupazione di sposare un figlio. Tutti eventi che si misurano in grandezze del tutto umane: i sicli di Avraham, l’acqua attinta da Rivkà, i gioielli e le vesti che le dona lo schiavo. Per poi andare avanti e vedere i problemi di convivenza tra i figli cadetti di Avraham ed Izchak. Eppure è proprio di questi elementi, del tutto umani, che si compone la vita di ognuno di noi. E deve venire un convertito, un grande Maestro di vita e di Torà, Eliezer, a spiegarci come funziona la vita. La vita è nelle mani del Signore e per questo, paradossalmente, nelle nostre. Tutto dipende dalle nostre azioni. Che cosa ne sarebbe stato di questo mondo se Rivkà si fosse impigrita ed avesse rinunciato ad un impresa di ‘ghemilut chasadim’ molto superiore agli standard consueti? Quanti di noi avrebbero passato ore a dar da bere ai cammelli di uno sconosciuto? Ed è proprio di questo che parla la parashà: dobbiamo saper andare oltre lo ‘standard’. Ci sono dei luoghi comuni e delle abitudini che contraddicono lo spirito della Torà. In una città dove il Sabato è la giornata di maggiori affari, chiudere il negozio è decisamente poco alla moda. Ebbene viene la Torà e ci dice che la moda o gli standard usuali possono essere spezzati. Nelle parole di Akivà ben Mahallalel (Eduiot V,6): “Preferisco essere chiamato folle tutti i miei giorni che essere una sola ora malvagio dinanzi al Signore”

Che uno dei messaggi chiave della Parashà sia il fatto che la vita nella sua materialità è nelle nostre mani affinché la eleviamo verso la Torà lo conferma una altro importante passo. Quando avviene l’incontro tra Izchak e Rivkà, la Torà dice: “Ed uscì Izchak a pregare nel Campo sul far della sera, ed alzò gli occhi ed ecco vengono dei cammelli.” (Genesi XXIV, 63). Il Campo in questione è secondo la tradizione il luogo del Bet HaMikdash, il luogo nel quale fù legato sull’altare. Il Talmud (TB Berachot 26b) ricava da questo verso il fatto che Izchak istituì la preghiera pomeridiana di Minchà. Secondo la tradizione midrashicha infatti Avraham ha istituito la preghiera di Shachrit, Izchak quella di Minchà e Jacov quella di Arvit. La preghiera di Minchà è generalmente considerata ‘et razon’, un ‘momento di volontà’. Ossia è un momento particolarmente propizio per l’accettazione della preghiera. Lo si impara, tra l’altro, dal fatto che la preghiera di Izchak (affinché l’impresa di Eliezer riuscisse) viene esaudita subito. Il motivo della particolare potenza della preghiera di Minchà sta nel fatto che essa avviene nel mezzo della giornata. Sia Shachrit, al mattino che Arvit la sera si trovano ai due estremi della giornata e sono prossime al momento in cui ci si alza ed al momento in cui si va a dormire (non per niente contengono la lettura dello Shemà obbligatoria proprio in questi due momenti). Minchà è più impegnativa perché generalmente l’uomo deve interrompere le proprie attività per eseguirla. Minchà più ancora di Shachrit ed Arvit afferma che c’è qualche cosa di superiore a ciò che facciamo di materiale. Minchà innalza tutto il nostro lavoro, tutta la nostra materialità, attraverso l’interruzione, seppur breve, che ci impone ogni giorno. Notevole è il fatto che la Torà la associa, con Izchak, al matrimonio. Momento centrale della vita. Dei tre momenti chiave della vita umana: nascita, matrimonio (che rappresenta la seconda nascita) e la morte, il matrimonio è l’unico che scegliamo. Così la scelta di interrompere la nostra vita per alzarci ed andare a dormire è molto limitata (si è obbligati a dormire prima o poi) ma quella di interrompere per pregare Minchà è tutta nostra.

Il pensiero della settimana è quello di seguire le orme di Eliezer, Rivkà ed Izchak. Capire che non esiste il Fato, che tutto dipende dalle nostre azioni. Agire sempre, agire bene e soprattutto scegliere di fermarsi ogni giorno per pregare Minchà.

Shabbat Shalom

Jonathan Pacifici

Questa derashà è dedicata alla memoria delle vittime degli ultimi attentati (novembre 2000) con l’augurio di refuà shelemà per tutti i feriti.

Parashat Chajè Sarà

[1] “Ed Izchak viene dal venire da Beer laChai Roì ma egli risiede nella Terra del Neghev. Ed uscì Izchak a parlare nel Campo sul far della sera, ed alzò i suoi occhi e vide ed ecco che vengono dei cammelli.” (Genesi XXIV, 62-3)

[2] “Ed uscì Izchak. Da dove è uscito? Dal giardino dell’Eden nel quale era stato dalla Legatura fino ad ora per tre anni. A parlare nel Campo: è la stessa radice di ‘Ed ogni pianta del Campo…’ (Genesi II,5), ‘Sotto una delle piante’ (Genesi, XXI, 15), come a dire a piantare alberi ed a controllare i suoi impiegati….” (Chizkuni in loco)

I nostri Maestri ci insegnano che i patriarchi rispettavano le mizvot. Lo stesso Lot, che aveva imparato la mizvà dell’ospitalità in casa di Avraham, (Rashì) offre agli Angeli delle mazzot poichè era Pesach. Del resto la Torà precede la Creazione e, come abbiamo detto più volte, è la storia che gli si modella attorno e non viceversa. D’altro canto i Patriarchi hanno un forte intuito e divengono dei canali particolari per la rivelazione della Torà. In una parabola cara alla mistica ebraica i Patriarchi sono il ‘Carro della presenza Divina’, nel senso che con il loro comportamento esemplare trasportano nel mondo la presenza Divina. Come canali della rivelazione, seppur precedenti alla Rivelazione Sinaitica, essi introducono importanti concetti nel mondo ed anticipano numerose mizvot. In particolar modo i Saggi hanno sottolineato come le tre Tefillot che noi recitiamo quotidianamente in sostituzione dell’offerta delle primizie, siano parallele a tre momenti chiave nella vita quotidiana del Santuario che a loro volta sono corrispondenti alle tre Tefillot istituite dai Patriarchi.

È noto che ognuno dei patriarchi ci ha anticipato una delle tre preghiere quotidiane. (TB Berachot 26b) Il verso che abbiamo citato all’inizio è in effetti la fonte per mostrare come Izchak abbia introdotto la preghiera pomeridiana di Minchà. Il Talmud legge infatti il termine ‘lasuach’, parlare, come una forma di preghiera. Dunque si tratta sì di parole ma di parole di preghiera. Il Campo, nel quale Izchak si raccoglie in preghiera è secondo la tradizione midrashica il luogo del Santuario, ossia lo stesso monte Morià sul quale era avvenuta la Legatura. Il Chizkuni commenta il verso in questione in maniera piuttosto problematica. Il Testo dice letteralmente che Izhak giungeva da Beer LaChai Roì ed uscì (deviò) dal suo percorso per andare a parlare nel campo. Il Talmud, abbiamo detto legge ‘lasuach’, parlare, come ‘pregare’ e ciò si impara dai Salmi. Il Chizkuni sembra far riferimento ad un altro senso della parola ‘lasuach’. In ebraico, e soprattutto nell’ebraico della Genesi, ‘siach’ è la pianta. Ed il Chizkuni porta due fonti: la prima è uno dei primi versi del secondo capitolo della Genesi, quella che viene chiamata dai Maestri ‘la seconda Creazione’, e la seconda è la cacciata di Agar. In questi due casi il testo usa la parola ‘siach’ per indicare una pianta e da qui il Chizkuni sembra imparare che il ‘lasuach’ di Izchak vada inteso come piantare alberi. Un secondo problema del commento del Chizkuni è l’effettiva provenienza di Izchak: nel primo dei due versi il Testo dice espressamente che veniva da Beer LaChai Roì, da dove tira fuori il Chizcuni il giardino dell’Eden? Per capire a fondo il messaggio del Chizcuni dobbiamo capire meglio le due fonti che porta. Dopo aver narrato la Creazione suddivisa in giorni nel primo capitolo della Genesi, la Torà affronta nel secondo capitolo alcuni ‘dettagli’ con un’ottica un po’ diversa: i Maestri la chiamano ‘la Seconda Creazione’. Il testo dice: “Ed ogni pianta del Campo ancora non era ancora nella Terra ed ogni erba del Campo ancora non era cresciuta poiché non aveva fatto piovere il Signore Iddio sulla Terra e l’uomo non c’era a lavorare la terra.” (Genesi II, 5). Si tratta di un verso problematico. La Torà ci ha già detto che la vegetazione è stata Creata nel terzo giorno ma qui ci dice che all’alba del sesto giorno, prima della Creazione dell’Uomo non era spuntato nulla. (Secondo Ibn Ezra ‘siach’ si riferisce agli alberi da frutto). Rashì (basandosi su TB Chulin 60b) dà una profonda lettura del verso. Le piante non c’erano perché non era mai piovuto, ma non era mai piovuto perché non c’era ancora chi potesse riconoscere il bene insito nelle piogge. Ossia non piove fino a che l’Uomo non viene creato e prega per le piogge. Il mondo vegetale è dunque creato solo in potenza ma la sua reale esistenza è condizionata all’intervento Divino che scaturisce come conseguenza della nostra preghiera. Per creare l’Uomo D-o crea la rugiada ma per creare in atto il resto del mondo (che già c’è in potenza) D-o ‘ha bisogno’ della preghiera dell’uomo e della pioggia. Da qui, come spiega il mio Maestro Rav Benedetto Carucci shlita dal quale ho imparato l’interpretazione di questo passo, che la Creazione dell’uomo si inserisce essenzialmente in una dimensione di gratuita misericordia (rugiada) ma che la creazione del resto del mondo (il mondo vegetale) è nella dimensione della pioggia, la dimensione della giustizia. Secondo questa lettura la prima operazione che il primo Uomo compie è quella di pregare per la pioggia, e questa permette il completamento della Creazione. Anche la seconda fonte del Chizkuni è strettamente legata alla preghiera. Agar viene cacciata dalla casa di Avraham con Ishmael e i due errano nel deserto fino a finire l’acqua. Ishmael sta morendo di sete ed Agar lo mette sotto un siach, sotto una pianta. Ed il Testo dice ‘Ed ascoltò il Signore la voce del ragazzo’. Dunque essenzialmente Ishmael sta sotto una pianta e prega per l’acqua. La preghiera, e la preghiera per l’acqua in particolare, sembrano essere un po’ il filo conduttore del nostro percorso. Non è quindi un caso che i Saggi abbiano scelto questo passo per la lettura del primo giorno di Rosh HaShanà, troviamo in esso un profondo richiamo alla radice stessa della preghiera. Ed è alla Parashà del secondo giorno di Rosh HaShanà che dobbiamo passare però per capire il discorso sulla provenienza di Izchak. Dopo l’episodio della Legatura Izchak sparisce. Non c’è quando Avraham torna dai fanciulli e non riappare se non al termine della nostra Parashà. Se è noto che secondo il Bereshit Rabbà Izchak va a studiare nella Yeshivà di Shem ed Ever, è un po’ meno noto che secondo il Midrash HaGadol (citato proprio dal Chizkuni in loco) Izchak viene trattenuto per tre anni nel Giardino dell’Eden. In entrambi i casi questi tre anni Izchak li dedica ad un’immersione spirituale ed a me pare che l’immersione di Izchak sia profondamente legata ad una riflessione sul senso della preghiera e sul senso del mondo vegetale che dalla preghiera dipende. Incontrando Rivkà Izchak viene effettivamente da due posti: dall’Eden e da Beer LaChai Roì. Beer LaChai Roì è il luogo della prima fuga di Agar. Ella gli mette questo nome (lett. il Pozzo del D-o Vivente della mia Visione) poiché dice con meraviglia di aver ‘veduto dopo aver veduto’. I Saggi commentano in loco che la meraviglia di Agar è dovuta al fatto che questa era solita vedere Angeli nella casa di Avraham, ma non pensava che ciò si potesse verificare anche altrove. Nella meraviglia di Agar c’è la meraviglia di chi esce da un’esperienza eccelsa (la casa di Avraham) e deve capire che bisogna saper scendere e vedere Angeli anche fuori dalla casa di Avraham. E chi più di Izchak deve capirlo? Izchak è stato consacrato come ‘olocausto’, ha toccato il vertice dell’esperienza umana ma ora deve capire come si scende. Il rischio dopo aver visto il D-o dell’evento strabiliante è quello di perdere il D-o della quotidianità. Con questo carico Izchak esce dall’Eden nel quale era stato per tre anni, esce dal giardino per eccellenza, e pianta un albero. Si deve saper uscire da tre anni di immersione nello studio della Torà e fermarsi a dire una preghiera con la dovuta concentrazione. Mondo vegetale e mondo dello Studio della Torà coincidono evidentemente nell’immaginario della Torà e di tutti i Maestri. Parlando di una cosa si intende necessariamente anche l’altra. Ed il percorso di Izchak è veramente un percorso simile a quello dell’albero da frutto. La Torà infatti proibisce l’uso dei frutti dell’albero nei primi tre anni dalla piantagione (orlà) e santifica i frutti del quarto anno come hillulim. Ebbene Izchak si ritira per tre anni dalla sua rinascita con la Legatura per prepararsi ad una nuova vita. Ed anche il suo quarto anno viene santificato perché nel momento in cui esce dall’Eden egli sposa Rivka. Il primo anno di matrimonio (nel quale vige uno status halachico particolare) tiene la coppia particolarmente vicina. Il marito infatti non dovrebbe lasciare la città in quell’anno (ed è infatti solo nella città di Jerushalaim che si può mangiare il raccolto del quarto anno o la seconda decima). Straordinario il fatto che il Sefer HaChinuch metta in relazione la radice di questa mizvà con quella delle primizie dalla quale abbiamo visto si ricava l’obbligo di pregare. Izchak è colui che, dopo la più sublime delle esperienza, sa procedere oltre creandosi una famiglia. È colui dopo aver vissuto per tre anni nel giardino spirituale studiando Torà, sa, una volta uscito, piantare l’albero della preghiera. Tutto questo sarebbe di per se straordinario se non ci fosse in mezzo un’altra mizvà che rischia di rimettere tutto in discussione! Sì, perchè Izchak sembra piantare un albero nel luogo del Santuario ma la Torà, nella Parashà di Shofetim proibisce categoricamente di piantare alberi nel Cortile del Tempio! Altre due divieti interessanti compaiono nello stesso luogo. Quello di piantare ‘mazzevot’, ossia pietre come segno di culto e quello di portare un’offerta che abbia dei difetti. A ben vedere si tratta dei tre atti per eccellenza che compiono i patriarchi proprio sul luogo del Santuario.

§ Avraham con la Legatura di Izchak. L’uomo è tutto tranne che un’offerta valida.

§ Izchak che pianta un albero.

§ Jacov che pianta una mazzevà a seguito del sogno.

I Patriarchi, lo abbiamo detto, sono personaggi particolari. La loro esperienza è in qualche modo estrema, basti pensare alla Legatura di Izchak. Essi compiono nel perimetro del Santuario delle ‘provocazioni’ il cui senso è proprio nella unicità dell’esperienza. La legatura di Izchak è la prova che deve superare l’uomo allorquando Iddio gli comanda un’offerta palesemente problematica. L’albero di Izchak va letto a mio avviso nello stesso senso. Si tratta in qualche modo dell’Albero della Vita, della Torà. Izchak è colui che pianta l’albero della Vita nel luogo del Santuario nel momento che capisce che dopo aver dimostrato la supremazia della Torà sulla vita stessa bisogna saper scendere e viverla questa vita. Avraham, lo abbiamo visto la scorsa settimana, è proprio colui che dopo una prova come la Legatura sa scendere ed insegnare ad alunni non particolarmente brillanti. E che dire di Jacov? Egli pianta la mazzevà dopo aver avuto la visione della scala, scala sulla quale secondo il midrash si rifiuta di salire. Il Santuario è la rivelazione della Presenza Divina nel mondo. Non perché da esso la gente voli in cielo come avviene in altre tradizioni, ma perché in esso l’uomo impari a camminare quaggiù. Non si piantano alberi nel Santuario perché l’unico Albero che si può piantare al cospetto di D-o è l’Albero della Vita, l’Albero della Torà che è già stato piantato da Izchak. È l’albero della preghiera profonda di chi capisce che questo mondo non è fatto di scale che portano in cielo ma di Alberi da far crescere verso il cielo. In questo difficile periodo noi veniamo chiamati più che mai a pregare per la pioggia. La preghiera per la pioggia, anche se detta nella diaspora, si riferisce sempre alla pioggia nella Terra d’Israele. Altri Alberi nel Santuario non possiamo piantarne. Possiamo pregare però per l’acqua che faccia crescere l’Albero della Vita. E non è poco.

Shabbat Shalom,

Jonathan Pacifici

“E spirò e morì Avraham in una buona vecchiaia, vecchio e se sazio, e si riunì al suo popolo. E lo seppellirono Izchak ed Ishmael suoi figli nella grotta di Machpelà, nel campo di Efro figlio di Zochar il Chitteo che si trova nei pressi di Mamrè. Il campo che acquistò Avraham dai figli di Chet, lì fu seppellito Avraham e Sarà sua moglie. E fù dopo la morte di Avraham, e benedì Iddio Izchak suo figlio, e risiedette Izchak con [in] Beer LaChaj Roì.” (Genesi XXV, 8-11)

“Izchak ed Ishmael: Da qui che fece Ishmael teshuvà e fece camminare Izchak davanti a lui (Bavà Batrà 16a ) e questa è la buona vecchiaia che è stata detta a proposito di Avraham.” (Rashì in loco)

Nel corso delle nostre ultime Parashot abbiamo avuto modo di conoscere i due figli di Avraham: Izchak ed Ishmael. Cercheremo questa settimana, in occasione della ‘grande riconciliazione’ che avviene nella Parashà di Chajè Sarà tra Izchak ed Ishmael, di approfondire i rapporti tra le due stirpi di Avraham secondo la lettura di Rav Mordechai Elon shlita nel suo Techelet Mordechaj (Chajè Sarà, II)

Al lettore più attento non sarà sfuggita una incredibile singolarità che caratterizza la morte di Avraham rispetto a quelle degli altri patriarchi. Avraham, colui che introduce la benedizione nel mondo, colui al quale Iddio dice ‘e sarai benedizione’, non benedice i suoi figli prima di morire. Il commento attribuito a Jonathan ben Uziel spiega ciò dicendo che Avraham, non volendo benedire Ishmael decide di non benedire neanche Izchak lasciando un eventuale benedizione al giudizio Divino.

Ed Iddio benedice Izchak con quella benedizione che passerà poi quest’ultimo a Jacov: ‘e ti dia la benedizione di Avraham a te ed alla tua discendenza, che tu erediti la terra nella quale hai risieduto..’(ivi, XXVIII,4). La benedizione di Avraham è il diritto ereditario sulla Terra d’Israele. Il midrash Tachumà si riferisce alla benedizione di Avraham in maniera un po’ diversa chiamando in causa un verso del quale ci siamo già occupati:

‘Ed il Signore benedisse Avraham in tutto, [baCol]’.

Cercheremo di capire il legame tra la benedizione del tutto e la benedizione dell’ereditarietà della Terra d’Israele.

Incontriamo il concetto di tutto [Col] nuovamente in maniera assai problematica con l’eredità di Avraham, giacché se è vero che questi non discrimini i suoi figli a livello di benedizione ciò non è vero per quanto riguarda l’eredità.

“E diede Avraham tutto [Col] quanto aveva ad Izchak. Ed ai figli delle concubine che aveva Avraham, diede Avraham dei regali e li mandò via da Izchak suo figlio quando era ancora in vita a oriente verso la terra di oriente.” (Genesi XXV, 5-6)

E si chiede lo Sfat Emet:

“Ed è difficile. Non l’inizio, la fine. Se ha dato dei regali, allora non ha dato tutto ad Izchak? E dunque il senso del verso è che ha dato il concetto del tutto ad Izchak, che questa è la benedizione che ha benedetto il Signore Avraham in tutto, ed ha dato la benedizione del tutto ad Izchak. E questo concetto anche se è un piccolo punto contiene il tutto.”

Dunque Avraham passa in eredità ad Izchak la benedizione del tutto. La più alta delle benedizioni che Iddio dà al nostro patriarca. La benedizione della completezza. Ed invitiamo il lettore ad approfondire questa benedizione con il commento di Ramban in loco. Si tratta di una benedizione strettamente spirituale. Di quella che i nostri maestri chiamano l’anima collettiva di Israele, la Keneset Israel.

Anche i regali che Avraham fa ai figli delle concubine sono secondo alcuni regali spirituali e sono la radice di alcuni aspetti di saggezza presenti nelle altre discendenze di Avraham.

Nel Talmud (TB Sanedrhin 91a) è riportata un interessante accusa che i figli di Ishmael ed i figli di Keturà (Hagar) fanno ad Israele dinanzi ad Alessandro il Macedone. I figli di Ishmael sostengono che ‘la Terra di Kenaan è nostra e vostra’ sulla base del fatto che sia Izchak, sia Ishmael sono chiamati figli di Avraham. E ribatte loro Ghevià ben Psisà su mandato dei Maestri che non c’è fondamento per quanto dicono giacché è Avraham a chiarire che Erez Israel è di Izchak prima ancora di morire.

Gli Ishmaeliti propongono in sostanza un equazione del tipo Izchak = Ishmael. E per la terra d’Israele una spartizione. E già Sarà aveva detto ‘non erediterà il figlio di questa serva, con mio figlio, con Izchak.’

Izchak ed Ishmael sono due personaggi se non uguali, paralleli. Esistono moltissime similitudini nella vita dei due, ma anche piccole differenze dai grandi significati.

Entrambi, casi unici nella Bibbia, ricevono il nome prima di essere partoriti (Ishmael) o addirittura prima di essere concepiti (Izchak).

La radice del nome di Ishmael è nell’ascolto e la sua forza è appunto nella preghiera, il quell’ascoltare di D-o la voce del fanciullo. Izchak viene invece dalla radice ‘ridere’, ma non perché Avraham e Sarà risero, quanto piuttosto perché la sua stessa esistenza è vista dal mondo come cosa ridicola, ma proprio la sua esistenza e le sue azioni mettono in ridicolo il mondo.

Ishmael, intendiamoci, ha i suoi meriti ed è ad esempio simbolo dell’accettazione delle preghiere. Il Talmud dice (TB Berachot 56b) che chi vede Ishmael in sogno, le sua preghiera viene ascoltata. Ed il Talmud sottolinea che si parla qui di Ishmael figlio di Avrham. Ossia che Ishmael ha questi meriti in quanto figlio di Avraham. Per questo Hagar non mette nome al ragazzo così come l’angelo gli aveva ordinato di fare, ma lascia il compito ad Avraham, poiché sa che solo attraverso il rimarcare la connessione biologica e concettuale tra Avraham e Ishmael questi può prosperare.

Ma non è tutto rose e fiori, e noi lo sappiamo bene. Il Pirkè Derabì Eliezer(29) fa dolere Bilam nella sua benedizione ad Israel circa i giorni alla fine del mondo quando coloro che portano nel loro nome il Nome di D-o, Ishmael, lotteranno contro coloro che portano nel loro nome il nome di D-o, Israel.

Ed ancora il Pikè DeRabbì Eliezer (32) dice: ‘Perché si chiama il suo nome Ishmael? Poiché in futuro il Santo Benedetto Egli sia ascolterà la voce della disperazione del popolo da ciò che faranno i figli di Ishmael nella Terra alla fine dei giorni. Perciò si chiama Ishamel (Ascolti Iddio), come è detto: ‘Li Ascolti Iddio e li esaudisca’.

Dunque da una parte Ishmael è colui la cui preghiera viene ascoltata, ma dall’altra è colui che con le sue angherie fa ascoltare la preghiera di Israele, alla fine dei tempi.

Uno dei punti più complessi del rapporto tra Izchak e Ishmael è la milà. Ishmael è il primo discendente di Avraham a circoncidersi, ma Izchak è il primo ad essere circonciso a otto giorni. Ed è importante ricordare che il precetto della milà è strettamente legato all’ereditarietà della Terra, e che solo dopo essersi circoncisi gli ebrei entrano in Erez Israel uscendo dall’Egitto.

La milà è anche la fonte delle rivendicazioni di Ishmael.

Lo Zohar HaKodesh (Shemot, Vaerà) dice:

“Rabbì Iosìe Rabbì Chjà andavano per la strada. Disse Rabì Iosì a Rabbi Chjà: Perché stai zitto? Ecco che la strada non è fatta altro che per le parole della Torà! Sospirò RabbìChjà e pianse. Iniziò a dire ‘E fu Sarà sterile, non aveva figlio’. Ohi a quel tempo in cui partorì Hagar Ishmael e poi fu circonciso Ishmael ed è entrato nel patto santo, prima che Izchak venisse al mondo. Ohi a quel tempo in cui è venuto Ishmael al mondo ed è stato circonciso. Che cosa ha fatto il Santo Benedetto Egli Sia? Ha allontanato i figli di Ishmael dall’attaccamento superiore e gli ha dato parte in basso nella Terra Santa per merito della milà che è in loro. E sono destinati i figli di Ishmael di dominare la Terra Santa molto tempo, quando questa sarà vuota dal tutto, così come la loro è vuota e non completa. E questi ostacoleranno il ritorno dei figli di Israele al loro posto, fino a che non si completerà il merito dei figli di Ishmael.”

Dunque Ishmael ha dei diritti sulla Terra d’Israel materiale in via transitoria. La sua milà è incompleta perché prescinde dalla radice di completezza e totalità che è nella benedizione del tutto ‘baCol’ di Avraham. E così non solo essi non hanno parte nella Terra d’Israele spirituale in quella che i nostri Saggi chiamano l’attaccamento superiore, ma anche, hanno diritto sulla Terra d’Israele quando questa è vuota dal tutto come dice lo Zohar. Non vuota in senso materiale, ma in senso spirituale. Quando manca il ‘tutto’ spirituale di Israele, allora e solo allora Ishmael può avere la sua parte.

La vita di Izchak e di Ishmael lo abbiamo detto sono simili. Izchak deve superare la legatura, ed Ishmael ha nell’allontanamento dalla casa paterna e nel pericolo di disidratazione nel deserto una sua piccola legatura. Rav Elon illustra in maniera straordinaria le similitudini tra i versi delle due prove. Noi ci soffermeremo su un solo punto.

Alla fine della prova di Ishmael/Hagar viene benedetto Ishmael dall’Angelo: ‘Ed egli sarà un uomo vigoroso, la sua mano è su tutto, e la mano di tutto è su di lui, e dinanzi a tutti i suoi fratelli risiederà.’

Izchak viene invece benedetto con : ‘Ed erediterà la tua discendenza la porta dei suoi nemici e verranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra, poiché hai ascoltato nella mia voce.’

Izchak è colui che la propria eredità di diritto deve conquistarsela lottando contro i nemici che non la riconoscono.

Ishmael invece ricava la sua benedizione proprio dal tutto.

Dice infatti lo Sfat Emet: ‘E quanto è detto di Ishmael, ‘la sua mano è sul tutto [baCol]’, ossia che avrà parte nella qualità di Avraham che Iddio benedisse con il tutto [baCol].

Ishmael ricava quindi la sua benedizione dal suo legame con la radice del Col, del tutto, di Avraham, ma c’è un termine per questo suo legame.

Prosegue infatti lo Sfat Emet ‘e la mano di tutto è su di lu’. Che l’attributo di Jacov che dice ad Esav ‘Io ho tutt’ (Yesh li Col) al contrario di Esav che dice ‘ho molto’ (Yesh li Rav) è più forte e lo domina.

Dunque Ishmael ha il merito dei padri, di Avraham ma Izchak ha il merito dei figli. Ishmael merita di dominare Erez Israel quando Israel non si dimostra portatore del concetto del Col del tutto di Avraham. Ma questo merito si interrompe quando i figli di Izchak capiscono la lezione di Jacov. Colui che capisce che quando si ha una casa e la si cresce nello spirito della Torà si ha tutto, si ha il tutto.

Anche Esav quando vede che il diritto su Erez Israel passa a Jacov trova come unica risposta quella di andarsi a sposare con la figlia si Ishmael, che la Torà sottolinea lì come figlio di Avraham. Esav pensa che l’unico modo per continuare ad aver diritto su Erez Israel è imparentarsi con il diritto Avrahamitico di Ishmael. E vale la pena di ricordare che lo stesso matrimonio di Esav con la figlia di Ishmael è fondamentale per stabilire l’età di Jacov. Da questo stesso verso i Saggi posso stabilire attraverso un complesso ragionamento che lo studio della Torà è superiore all’onore verso i genitori.

E dunque la risposta ad Esav è proprio questa: Esav vuole legarsi ad Erez Israel con il diritto ereditario di Avraham per via di Ishmael. Jacov si lega ad Avraham con lo studio della Torà che è superiore al rapporto padre/figlio.

Lo stesso Izchak dopo la legatura va a studiare in quella stessa Yeshivà di Shem ed Ever nella quale studierà Jacov.

Izchak ricomparirà solo sessantasette versi dopo.

Solo quando verrà da Beer Lachaj Roì portando con se Ishmael ed Hagar.

Izchak ci insegna che la Teshuva di Ishmael è legata allo studio della Torà dello stesso Izchak. Se si vuole capire come si può convivere con Ishmael si deve capire chi si è, e per capire chi si è si deve studiare Torà.

Izchak va a studiare la Torà di Shem ed Ever, quella che non si trova a casa di Avraham, che ci insegna come ci si relaziona con il diverso e come lo si porta ad accettare il ruolo di Israele come portatore del tutto.

In un epoca in cui tutti parlano di storia e di diritti sulla Terra in virtù della storia passata forse sarebbe il caso di cominciare a capire che il nostro diritto su Erez Israel viene dalla Torà dei figli piuttosto che dalla vita dei padri.

Erez Israel la si guadagna con la milà che ci ha ordinato Iddio nella Torà per mezzo di Moshè nostro Maestro, che è come quella di Avraham. Ishmael si circoncide come Avraham, ma senza che gli sia stato ordinato.

Ed è più grande colui che è comandato e fa rispetto a chi non è comandato e fa.

Shabbat Shalom , Jonathan Pacifici

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.