Derashot di Toledot
Questa settimana completiamo il primo anno di questa rubrica. Come vuole la tradizione ebraica il completamento di un ciclo di studio è un’occasione particolarmente gioiosa. Voglio ringraziare quanti ci hanno seguito fino ad ora e che spero continueranno a seguire ancora questa mailng-list. I miei ringraziamenti vanno inoltre a tutti i miei Maestri, a tutti coloro che mi hanno scritto per suggerimenti e/o chiarimenti ed in particolare a Joram Marino, che cura il sito Menorah e questa mailing-list.
Il mio augurio è che nascano iniziative analoghe alla nostra volte alla diffusione della Torà attraverso questo straordinario mezzo di comunicazione che è internet.
Parashat Toledot
“Vai per favore al gregge e prendi per me di là due capretti buoni” (Genesi XXVII, 9)
“Buoni per te e buoni per i tuoi figli. Buoni per te perché per mezzo loro ti prendi le benedizioni, e buoni per i tuoi figli perché per mezzo loro espiano nel giorno di Kippur, uno per il Signore ed uno ad ‘Azazel’.” (Midrash Rabbà)
Nelle scorse Parashot sono spesso avvenute delle separazioni tra fratelli. Abbiamo visto Avraham lasciare Lot (che pur essendogli nipote sale al grado di fratello dopo la morte del padre). Izchak si è separato da Ishmael. Rivkà si è separata da Lavan. Indubbiamente il messaggio che si cela dietro questo ricorrente fenomeno è che bene e male vanno tenuti separati. Abbiamo più volte detto che “kadosh” (spesso tradotto ‘santo’) significa principalmente distinto. La Torà ci insegna sin dal suo inizio a separare le cose: il giorno dalla notte, le acque dalla terra ferma e lo Shabbat dal resto della settimana. Anche tra le persone è bene separare quando la parte “marcia” rischia di rovinare quella buona.
Nella stessa linea proseguiamo questa settimana, facendo un ulteriore passo logico. Abbiamo ora due gemelli. Due individui che hanno convissuto nell’utero materno e che fin dall’utero materno hanno preso due strade diverse (cfr. Rashì su “Vaitrozzezù”). Due gemelli sono due lati di una stessa medaglia, sono due vie che possono convergere ma anche divergere. Sono forse la migliore delle rappresentazioni simboliche per avvertirci che la separazione e la distinzione continua che la Torà impone non finiscono neanche quando abbiamo separato tra noi ed un fratello. Il processo di separazione continua all’interno di ognuno di noi.
Tenendo quindi presente che il rapporto tra Jaqov ed Esav non è solo simbolico del rapporto tra Israele e le altre genti, ma concretizza il conflitto interno ad ognuno di noi, proviamo ad analizzare qualche elemento di uno dei più celebri episodi della Torà con l’ausilio del commento del Bet-Hallevì.
Dobbiamo innanzitutto distinguere tra due componenti diverse che si intrecciano nei versi della Parashà. Bechorà (primogenitura) e Berachà (benedizione).
La Torà usa, nel citare l’ordine di nascita, l’espressione “Vajezà HaRishon”, generalmente tradotta come “Ed uscì il primo”. Il Bet-Hallevì (citando TB Pesachim 5), sottolinea la differenza che esiste tra “Rishon” (primo) e “HaRishon” (il primo). La presenza o meno dell’articolo modifica il senso della parola: se l’articolo è presente la parola ha solo il suo senso temporale, se l’articolo non c’è la parola è da connotarsi anche qualitativamente. La Torà connota generalmente in maniera positiva le primizie. In questo caso quindi, dovremmo tradurre “Ed uscì per primo”. Esav uscì per primo, ma non per questo possiede il livello superiore che ha in genere un “rishon” (primo, senza articolo). In base a ciò possiamo capire come in realtà la condizione alla nascita era assolutamente paritetica. Abbiamo due gemelli, con gli stessi diritti. Il fatto che Esav venisse considerato primogenito era solo una visione umana e parziale della situazione.
La primogenitura era, fino all’investitura dei leviti, sinonimo di sacerdozio. La “vendita” della primogenitura coincide con la designazione dell’erede spirituale di Izchak. Non è certo un caso che secondo il midrash l’episodio avviene nel giorno in cui muore Avraham. In quel momento si rende necessario decidere chi sarà il terzo patriarca. Scegliere di essere bechor (primogenito) significa scegliere di andare in schiavitù in Egitto (come predetto ad Avraham) prima di ricevere la Torà. Non è un compito facile ed Esav ci rinuncia volentieri optando per la materialità della minestra rossa. Rossa come il sangue. Il rosso della materialità che Esav ha già scelto. Verrà chiamato Edom, dalla radice di rosso.
Dal punto di vista di Esav la scelta è facile: dividiamo in due materia e spirito, questo mondo ed il mondo a venire. Io prendo questo mondo e la materialità. Jaqov lo spirito ed il mondo futuro. Io le mani, lui la voce.
La benedizione che deve assegnare Izchak prima di morire concerne solo ed esclusivamente i beni materiali ed è per questo che secondo Izchak toccava ad Esav. Per Esav era la conseguenza diretta della scelta nella materialità. Ed invece ad essere benedetto è Jaqov.
Jaqov non vuole questa benedizione. Non sa che farsene. Lui ha scelto lo spirito ed è d’accordo a lasciare al fratello la materia.
Non così le cose devono andare. Si intromette Rivkà ed è lei che cambia la storia. Rivkà si rende conto che le benedizioni terrene vanno comunque a Jaqov.
Benedicendo Jaqov al posto di Esav, Izchak assegna al nostro terzo patriarca il possesso dei beni materiali. E questo è strano. Siamo forse noi il popolo che sottolinea l’importanza della materia?
Qui c’è la chiave del discorso. Noi dobbiamo spiritualizzare la materia. Ma non possiamo farlo con ciò che è di qualcun altro. La materialità corrompe lo spirito ma il problema non si risolve annullando la materia. Si deve spiritualizzarla ed innalzarla. Non possiamo cancellare la materia per evitare di essere traviati. Dobbiamo vincere la materia scegliendo lo spirito.
Esav divide tutto in due: questo mondo a me, il prossimo a te. La materia a me, lo spirito a te. Nel diritto ebraico non si divide così. Se ci sono due fratelli si divide per tre ed il primogenito prende due parti. Così, essendo Jaqov il primogenito non solo possiede il mondo futuro, ma anche una parte di questo mondo.
Rivkà capisce che la Torà non è per asceti. Ci vuole il vino per fare il Kiddush, il denaro per fare la Zedakkà ed i greggi per fare i sacrifici. Si deve portare la Torà nella materia.
I due capretti che Rivkà prepara e che sono lo strumento del suo piano diventeranno i due capri del giorno di Kippur. Due capri identici, gemelli, come Jaqov ed Esav. Uno prende la strada del deserto portando via la materialità negativa da Israele, l’altro viene sacrificato innalzando fino a D-o la materia che Israele è riuscito a spiritualizzare.
Per Esav il mondo è due. Solo Rivkà capisce che il mondo è sempre più di ciò che si vede, almeno uno in più.come l’eredità. Se si vede due, allora deve essere tre.
Nel mondo come lo vede Esav ci sono solo due Santuari. Ma il nostro compito è di provocare la costruzione del terzo.
Ecco perché Esav non accetta il fatto che Jaqov prenda anche la berachà (benedizione) dopo aver preso la bechorà (primogenitura).
Benedire Jaqov con i beni materiali vuol dire accettare il principio “del tre”. Significa accettare il fatto che il Terzo Santuario verrà costruito, presto ed ai nostri giorni.
Il terzo Santuario è chiamato, paradossalmente “Rishon”, “primo”, senza articolo. Primo in assoluto, migliore, definitivo. Il Tempio dell’era messianica.
Così Izchak, un sacrificio non ancora sacrificato, deve sancire con la benedizione di Jaqov la costruzione di un Tempio non ancora costruito nel quale in eterno si separerà tra due capretti identici nel giorno di Kippur.
Concretizzare tutto ciò è il nostro compito. Dividendo tra bene e male, tra “kasher” e “taref”, tra giorno e notte, tra Shabbat ed il resto della settimana e tra Israele e le altre genti.
Cominciando a separare il bene e il male che c’è in noi potremo essere degni di essere noi tutti un Santuario ospitando in noi la presenza Divina.
“E mi faranno un Santuario, ed Io risiederò in loro.” (Esodo XVIII, 8)
E crebbero i fanciulli e fu Esav un uomo che sa cacciare, un uomo del campo e Jacov un uomo semplice/integro che risiede nelle tende” (Genesi XXV, 27)
Gli avvenimenti della Parashà di Toledot sono di una importanza eccezionale, e non solo perché, come detto più volte, questi influenzano la vita di Israele e del mondo intero sino ad oggi. Nella Parashà di Toledot, si presenta l’unica finestra temporale nella quale sono in vita tutti e tre i patriarchi. Questo è un elemento fondamentale. Quando la Torà, nel distinguere tra Jacov ed Esav dice che Esav era un uomo dedito alla caccia mentre Jacov era un uomo semplice/integro che risiede nelle tende, i Saggi comprendono che sedeva nelle tende dello studio della Torà. Dobbiamo però capire che questi anni, nei quali matura la differenza tra i due gemelli sono gli anni nei quali anche Avraham, Izchak studiano Torà assieme a Jacov. Non si tratta quindi solo della differenza tra Jacov ed Esav, ma della differenza tra l’insieme dei patriarchi ed Esav. Ma facciamo attenzione. Non si parla qui della distinzione tra spirito e materia che piace tanto a molte culture, niente affatto. La Torà ci narra proprio nell’apertura della Parashà dei successi economici di Izchak. Le possibilità economiche di Avraham sono note e lo stesso Jacov diverrà molto ricco attraverso il duro lavoro. La domanda non è se si lavora o se si studia ma piuttosto come si lavora e come si studia.
“E tutti i pozzi che avevano scavato i servi di suo padre all’epoca di Avraham suo padre li avevano otturati i filistei e li avevano riempiti di polvere” (Genesi XXVI, 15)
Izchak quindi libera i pozzi dalla sabbia e ridà loro i nomi che gli aveva attribuito Avraham. L’autore del “HaKtav Veakabalà” spiega cosa significhi. La grandezza di Avraham era stata quella di dare ai pozzi dei nomi contenenti un riferimento alla Divinità. L’acqua, elemento di vita e di speranza, viene da D-o ed un pozzo beneficia tutti, non solo il proprietario. Avraham scavando pozzi e dando poi ospitalità provoca una santificazione del Nome di D-o attribuendo a Lui ogni suo bene. Ogni pozzo diventa quindi un occasione per riversare nel mondo Torà assieme all’acqua. I filistei, otturando i pozzi e riempiendoli di sabbia manifestavano la loro volontà di cancellare il messaggio di Avraham, operazione per la quale erano disposti a sacrificare l’acqua, tutto sommato preziosa anche per loro.
Ecco che la prima cosa che fa Izchak è riaprire i pozzi e riprendere quell’opera di santificazione del Nome di D-o che deriva da un attività economica gestita secondo le regole della Torà. Già allora la contrapposizione tra il “D-o di ogni spirito per ogni carne” ed il “dio denaro” era uno degli elementi in questione. Non per nulla il contrasto tra Jacov ed Esav verte solo sulle benedizioni materiali, quelle spirituali non vanno in eredità!!! Da una parte abbiamo quindi la problematica di come si gestisce una attività commerciale secondo la Torà, dall’altra che cosa si fa quando si smette di lavorare. Non solo è importante lavorare in maniera da santificare il Nome di D-o, si deve anche capire che se il lavoro è uno strumento di sostentamento e quindi uno strumento per il servizio Divino esso non è e non può essere il fine dell’esistenza umana. Ed il servizio Divino, unica e sola ragion d’essere per l’uomo, si fonda anche e soprattutto sullo studio della Torà. E qui vediamo l’ulteriore differenza tra Jacov ed Esav. Non è infatti ragionevole pensare che Jacov non lavorasse affatto. Il punto è che quando Jacov smetteva di lavorare iniziava la sua vera vita, quella dello studio della Torà.
Erich Fromm nel suo “Avere o Essere” nota con interesse che oggi alla domanda “Chi sei?” uno risponde con la sua attività: “Sono commerciante”, “Sono architetto”, “Sono insegnante”. Ma noi siamo veramente il mestiere che facciamo? Esav indubbiamente si. Alla domanda: “Chi sono Jacov ed Esav?” La Torà ci risponde dicendo che Esav è un cacciatore, Jacov è uno che studia. Ora D-o e la Torà sono davvero gli ultimi che attaccano delle “etichette” alle persone, nemmeno noi ci conosciamo meglio di D-o che ci ha creati! Quello che dice la Torà quindi è che Esav alla domanda: “Chi sei?” rispondeva “un cacciatore”. Jacov rispodenva “uno che studia”. La Torà attribuisce ad Esav una frase praticamente unica nel Tanach: “E cucinò Jacov una minestra, e venne Esav dal campo ed egli era stanco. E disse Esav a Jacov: ‘Versami un po’ di questo rosso rosso perchè sono stanco, per questo fu chiamato Edom (cioè rosso)” (Genesi XXV, 29-30)
In questi due versi c’è forse tutta la storia. È noto il fatto che ciò avvenne nel giorno del funerale di Avraham (Bavà Batrà 91b) e la minestra in questione è il pasto di avelut che Jacov aveva preparato per il padre Izchak. Dinanzi alla perdita del pilastro del mondo Jacov cerca di rendersi utile e prende in mano l’organizzazione del “settimo” del padre, Esav non trova invece niente di meglio da fare che mangiare perché è stanco. Si tratta di due mondi diversi: La vita di Jacov inizia quando torna nella tenda, è lì che fa le mizvot e soprattutto è li che studia. La vita di Esav si riduce al lavoro: quando torna a casa è stanco e neanche si cura di ciò che gli accade attorno. In questa luce possiamo capire quello che avviene: “E disse Jacov: ‘Vendi come oggi a me la tua primogenitura’. E disse Esav: ‘Io vado a morire, che me ne faccio della primogenitura’.” (Genesi XXV,31-32)
Esav, vedendo la morte di Avraham, dice al fratello che tutto sommato se si deve morire è meglio un piatto di minestra che tutta la Torà. Che cosa ci si fa con le buone azioni, meglio godersi la vita. In qualche modo il disprezzo di Esav è maggiore ancora verso la mizvà stessa. La minestra che tu hai preparato e che nostro padre deve mangiare per mizvà (perché è mizvà, visto che probabilmente l’ultima cosa che interessa all’avel è mangiare), è buona per rifocillarmi. La stanchezza di Esav sommata alla frase: “io vado a morire” è la sintesi della sua filosofia di vita. È una filosofia che prevede due punti fermi: Godersi la vita. Dedicarsi solo a ciò che dà subito un tornaconto nella vita terrena. Straordinario è Rashì in loco. Rashì, commentando la parola ‘primogenitura’, dice che Jacov ha spiegato a Esav che la primogenitura è legata al servizio Divino e che questo prevede premio e punizione. Dinanzi alla complessità della Sehmirat mizvot, Esav rinuncia dicendo, “Io ne morirei”, non sono in grado di mantenerla.
La stanchezza di Esav è un concetto inaccettabile per la Torà. Noi abbiamo tutto il diritto di essere stanchi ma non abbiamo il diritto di diminuire il nostro servizio Divino per questo motivo. La mattina nelle “birkot haShachar” benediciamo il Signore ‘che dà forza a chi è stanco’. La stanchezza è un elemento umano, ma a noi viene chiesto di andare oltre i nostri limiti. Il midrash sulla Parashà di Vaiezè ci dice che Jacov non dormì per tutti i quattordici anni che studiò Torà da Shem ed Ever. Eppure dorme subito (all’inizio della Parashà di Vaietzè) quando si rende conto del fatto che è volontà di D-o che lui dorma nel luogo dove si trova al momento del tramonto anticipato disposto dal Signore che ha accorciato il giorno.
Ora intendiamoci: dormire è importante e necessario. Non però perché sia uno scopo di vita, ma come strumento per servire meglio il Signore. È giusto dormire, non è giusto rinunciare a pregare e a mettersi i tefillin la mattina, “perché sono stanco”. E già i Pirkiè Avot ci hanno invitato a prendere dagli animali le caratteristiche di forza e velocità nel servizio Divino. Ed hanno anche detto i Saggi che la benedizione di Bilam (“Ecco un popolo che si innalza come un leoncello”) si riferisce al fatto che Israele si alza presto ogni mattina per mettere i tefillin e pregare Shachrit.
Lo stesso Izchak si rende perfettamente conto di tutto ciò che accade. Nella sua famosa frase “La voce è la voce di Jacov” c’è una verità che va molto oltre il timbro vocale del nostro terzo patriarca. “E disse Izchak a suo figlio: ‘Come mai hai fatto presto a trovare, figlio mio?’ E disse: ‘Il Signore tuo D-o me lo ha fatto capitare davanti’”. Questa è una frase che solo Jacov poteva dire, non certo Esav. Nel mondo di Esav non esiste tornare presto a casa dal lavoro, il lavoro è la casa. Solo Jacov riconosce che una volta raggiunto l’obbiettivo, l’incasso necessario, la preda prefissata, si può anche tornare a casa. Non solo. Nella risposta di Jacov ritroviamo la stessa problematica caso/intervento Divino di cui ci siamo occupati la scorsa settimana. Jacov, come Eliezer dice che tutto dipende da D-o, anche e soprattutto il successo economico. La voce che dice ciò può essere solo quella di Jacov. Jacov va dal padre per prendersi la materialità, oltre che la spiritualità che solo D-o può dare sostenendo a testa alta che la materialità gli serve per servire D-o, niente di più e, soprattutto, niente di meno. Si mette i bei vestiti del fratello, (cfr. Midrash Rabbà in loco) per dimostrare che come Esav serve il padre con i vestiti migliori (e questo è il suo solo merito) così si deve servire D-o con il meglio della materialità. L’inganno di Jacov è tale per chi, come Esav ed anche Lavan che glielo rinfaccerà, non capisce i profondi significati della vita.
Nello Shabbat nel quale si narra la profonda differenza tra noi e chi ci circonda si ripropone per noi, discendenti di Jacov, la pesante scommessa lanciata in una tenda nel deserto da Avraham, Izchak e Jacov.
La scommessa di lavorare e lavorare duro capendo e dimostrando che ciò che si guadagna non è altro che uno strumento nel servizio di D-o.
La scommessa di farlo in maniera corretta, onesta e soprattutto non di Shabbat.
La scommessa di saper tornare a casa e cominciare a vivere attraverso lo studio della Torà e le mizvot.
La scommessa infine di accettare e vivere l’idea che vale più qualche minuto di intimità e studio familiare, alla sera, quando si è stanchi, rispetto a tutta la giornata lavorativa. Quel momento di Teshuvà in questo mondo che in fondo vale più di tutta la vita del mondo futuro. (Cfr. Pirkiè Avot)
Shabbat Shalom
Jonathan Pacifici
“E partì da lì e scavò un altro pozzo e non ci fu lite per esso e lo chiamò Rechovot, e disse: ‘Poichè ora il Signore ci farà spazio e saremo prolifici nella Terra’” (Genesi XXVI, 22)
La Parashà di Toledot ci presenta uno scontro titanico, uno scontro tra due mondi. Jacov ed Esav. L’episodio della vendita della primogenitura e quello della benedizione segnano così profondamente la storia del nostro popolo ed i suoi rapporti con le genti che generalmente è di questi che si parla quando si affronta la Parashà di Toledot.
Ma la Torà è tutta santa e pesa la Sue parole con estrema attenzione.
Tra l’episodio della vendita della primogenitura, che avviene secondo la tradizione nel giorno della morte di Avraham, e quello della benedizione la Torà sembra divagare un poco. Si parla di Izchak, della sua vita e delle sue difficoltà. Sembra strano ma del nostro secondo patriarca si parla praticamente solo lì. E l’impressione è quella di un uomo profondamente immerso negli affari: pozzi, piantagioni, acqua. Ma Izchak è un personaggio particolare, ed allora si tratta di capire che cosa ci voglia insegnare la Torà e soprattutto perché tra due momenti così critici della storia ebraica.
Al lettore di quei pochi versi risalterà la presenza di Avraham. Quell’Avraham chiamato ‘Principe di D.’ da Avimelech, è presente pur dopo la morte e la sua presenza si fa sentire. Ma andiamo con ordine:
In Terra di Kenaan c’è la carestia ed il testo ci tiene a specificare che si tratta di un’altra carestia diversa da quella dell’epoca di Avraham. Izchak intende scendere in Egitto seguendo l’esempio del padre, ma D. gli appare impedendogli di uscire da Erez Israel in quanto ‘offerta prefetta’, carne sacrificale che non può uscire dal Santuario (Rashì). Izchak si ferma a Gherar da Avimelech in un ‘esilio’ che il Ramban paragona alla cattività babilonese (l’esilio di Avraham è l’esilio d’Egitto).
Iddio rassicura Izchak rinnovando la promessa fatta ad Avraham con grandi termini e versi poetici, eppure motiva il tutto:
“per il fatto che Avraham ha ascoltato la mia voce ed ha osservato la Mia osservanza, le miei leggi, i miei statuti e le mie regole.” (ivi 6)
Forse Izchak non ha abbastanza meriti. Non dimentichiamo la sua cosciente partecipazione all’episodio della legatura!
Izchak vive a Gherar e per evitare molestie a Rivkà la dichiara sua sorella compiendo l’errore in cui Avraham era incorso due volte. C’è un atteggiamento in Izchak quasi di imitazione nei confronti di Avraham.
Poi Izchak si dedica agli affari e riesce molto bene. Intanto i Filistei avevano otturato i pozzi di Avraham. Izchak riscava quei pozzi e ripristina i nomi che aveva messo loro Avraham. Scava altri tre pozzi. Va a Ber Shava.
Il Signore gli parla nuovamente:
“Io sono il D. di Avraham tuo padre, non temere perché Io sono con te e ti benedirò per merito di Avraham mio servo.”
Lo spettro di Avraham è a tratti ossessionante in questo brano.
Il fatto è che in una cultura come quella ebraica che ruota attorno alla famiglia il concetto di identità può presentare dei problemi. Quello che mi si chiede è essere me stesso, ma d’altronde mi si chiede pure seguire un determinato codice comportamentale insegnatomi da mio padre. Ossia devo essere me stesso ma devo comportarmi come mio padre. E se seguiamo il principio rabbinico per il quale ‘i cuori vanno appresso alle azioni’ (Sefer Hachinuch), allora le azioni che faccio forgiano la mia identità. Dunque la mia vita è un forgiare la mia identità a modello di quella di mio padre, il che presenta non pochi problemi.
È il problema di Izchak. Perché dopo che si è vissuti alla corte di un personaggio come Avraham, servo di D., che altro si può fare se non cercare di ricalcare le sue orme?
Ma noi sappiamo anche ognuno ha un proprio modo di servire il Signore ed i Saggi della Grande Assemblea ce lo hanno insegnato inserendo nella amidà la frase: ‘D. di Avraham, D. di Izchak, e D. di Jacov’. Ognuno a modo suo.
Ma come facciamo a dire che il modo di Izchak è diverso quando in questo passo sembra un replicante di Avraham?
Nella realtà mi pare che stiamo trattando di una prova, una prova tremenda che sembra essere l’equivalente per Izchak della Legatura per Avraham. E sembra strano considerando che la vittima designata era proprio Izchak. Ma Izchak vive nella misura del timore, Iddio è Pachad Izchak, il Terrore di Izchak. Avraham è nella misura della misericordia, dell’amore. ‘Chesed leAvraham’. Avraham serve D. per amore e si aspetta un comportamento misericordioso. Izchak serve D. per timore, è rigoroso all’estremo e non si aspetta null’altro che la volontà di D. venga eseguita. Uccidere il proprio figlio per decreto Divino è un problema per Avraham che vuole essere d’accordo con D., non per Izchak. Se D. mi vuole morto va bene. È Avraham che deve provare il proprio sangue freddo.
Ora avviene l’inverso. Perché ad uno come Izchak che si pone nella dimensione della giustizia assoluta c’è una sola cosa che non gli si può proporre: un regalo. Misericordia. Izchak vuole meritare, non vuole regali. Per Izchak vivere della rendita ‘celeste’ paterna equivale alla prova della Legatura. Ognuno viene testato sul suo punto debole.
Izchak nel frattempo scava pozzi. Libera dalla polvere ‘tutti’ (termine che indica tre) i pozzi di Avraham che avevano otturato i Filistei e ripristina i loro nomi. Poi scava tre pozzi suoi: sui primi due c’è contesa sul terzo no.
Il Ramban in un intuizione monumentale capisce che i pozzi in questione vanno ben oltre i problemi agricoli. Si tratta del Santuario. I primi due pozzi hanno nomi che indicano lite e Izchak li chiama così proprio per la lite con i filistei. Essi rappresentano il primo ed il secondo Santuario sui quali la lite ha portato distruzione. Ma il terzo pozzo a nome Rechovot, dal termine rachav, largo esteso. Esso rappresenta il terzo Santuario, possa essere costruito presto ed ai nostri giorni, sul quale non vi sarà alcuna lite.
Secondo Sforno questo sesto pozzo (il terzo di Izchak + i tre di Avraham) viene scavato in tranquillità solo dopo quanto avviene in conseguenza della seconda rivelazione Divina che citavamo poco fa.
Perché dopo tale rivelazione c’è un cambiamento: Izchak costruisce un altare ed invoca il nome del Signore. Ramban individua il nostro problema sin dall’inizio e si chiede come mai Avraham e Jacov ricevono assicurazioni indipendenti e Izchak si vede collegare ogni assicurazione ai meriti di Avraham? Il Ramban risponde dicendo che questo fenomeno termina quando Izchak inizia ad invocare il nome del Signore.
Il Radak ci tiene a dire ‘come faceva Avraham’ ma bisogna capire che qui non è che i Saggi stanno in finestra e per ogni cosa che Izchak fa dicono ‘come Avraham’.
Izchak, quello che mette ai pozzi i nomi che aveva scelto il padre, esce dall’ombra del padre quando invoca il Signore, come faceva il padre.
Allora capiamo il vero e profondo segreto dell’identità. Solo quando si capisce come si invoca il nome di D. si raggiunge la propria identità. Nella realtà le azioni che fa Izchak vanno benissimo e fa benissimo a mettere ai pozzi i nomi che aveva scelto Avraham. Il punto è che nel suo cervello si sente ombra. E questo essere ombra in un esistenza spirituale ovattata e distorta dalla presenza del padre è l’unica prova possibile per uno che tiene più alla giustizia Divina che alla propria vita.
Izchak la propria indipendenza la raggiunge quando capisce che la presenza di Avraham non può essere un impedimento per la propria identità e ciò è garantito dal Nome di D., radice dell’esistenza stessa.
Quando si capisce come pronunciare un nome che non può essere pronunciato, quando si capisce la radice profonda dell’esistenza si capisce che ognuno di noi ha con D. un rapporto individuale.
Eppure questo rapporto individuale deve essere sottinteso. Ognuno deve pensare se stesso come se il mondo fosse stato creato per lui. Ma quando si passa al comportamento questa ‘arroganza’ deve sparire. Il mondo delle azioni, il mondo della halachà è il mondo della interazione con il prossimo. Il cuore della Torà sono le leggi dei danni!!!
Solo quando si capisce come si invoca il nome di D. ci si può comportare come Avraham ma essere Izchak.
E dunque il terzo Santuario arriva solo dopo che si capisce questo sostanziale passo: quando si capisce che comportarsi come i miei avi duemila anni fa e portare i loro nomi non solo non mi impedisce di essere me stesso ma anzi è l’unica via che ho per essere me stesso.
La conclusione del passo è la corona per quanto detto fin ora. I servi di Izchak trovano un settimo pozzo e Izchak lo chiama Shivà (sette appunto) da cui il nome della Città Beer Sheva.
Nella realtà Avraham aveva chiamato quel posto Beer Shava. Da Shevuà, giuramento. Izchak lo chiama Beer Sheva, da Sheva, sette.
Nel testo della Torà non è cambiato nulla, le vocali non ci sono. Ma nella lettura orale della Torà è sì cambiato qualche cosa e Sforno ci avverte in maniera geniale che all’epoca di Avraham Beer Shava con il kamaz (a) indicava il giuramento, ma all’epoca di Izchak con il segol (e), Beer Sheva indica sia il giuramento che sette.
La nostra cultura si basa sulla legge. Su una legge stretta e categorica. Ma la legge, nei termini della legge stessa, va vissuta, va punteggiata.
Izchak è colui che senza cambiare una virgola di quanto fatto dal padre sa portare i propri significati. Izchak è quello che ci insegna che portare i nostri significati ha un senso solo quando si mantengono quelli dei nostri padri.
Il conflitto tra Jacov ed Esav è questo del resto. Bastano le idee, o servono le azioni? Ed il disprezzo di Esav per la morte di Avraham è indicativo. Ad un Izchak che vive come ombra complessata di Avraham è simpatico Esav che rompe la catena. Lui non è capace, ma l’idea forse l’attira. Solo dopo quanto detto fin ora può stare al gioco provocatorio di Jacov (e che sia chiaro Izchak era pienamente conscio di quanto avveniva cfr. Bet Hallevì in loco).
Dunque capiamo in questo Shabbat che prima di poter dividere tra noi e le genti dobbiamo saper unire tra noi ed i nostri padri. Dobbiamo saper trovare la nostra identità personale, ma dove cercarla se non nell’identità di azioni con chi ci ha preceduto?
Identità significa saper essere identici ai nostri padri e saper costruire il Terzo Tempio cambiando un kamaz con un segol. Preso ed ai nostri giorni.
Shabbat Shalom,
Jonathan Pacifici
“E si apprestò e lo baciò, ed odorò l’odore dei suoi vestiti e lo benedì; e disse: ‘Vedi, l’odore di mio figlio è come l’odore del campo che è stato benedetto dal Signore.’” (Genesi XXVII,27)
“ed odorò: ma non c’è odore più sgradevole delle pelli di agnello? Ma ciò insegna che è entrato con esso l’odore del Giardino dell’Eden. Come l’odore del campo che è stato benedetto dal Signore: che ha messo in esso un buon odore, e questo è il campo dei meli, così hanno imparato i nostri Maestri, sia il loro ricordo di benedizione”. (Rashì in loco, citando TB Taanit 29b)
Il Rav Dessler spiega in Mictav MeEliau (II, 206-210) che Izchak non intendeva benedire Jacov giacché aveva intuito che questi era un giusto nella sua interiorità. La benedizione era pertanto riservata ad Esav, colui che ne aveva più bisogno proprio in virtù della sua superficialità. Spiega infatti il Rav Dessler che non è possibile incidere sulla radice profonda della interiorità del nostro prossimo, solo lui può scegliere la via del bene. È possibile però incidere sulla sua esteriorità, sul mondo che lo circonda con l’intento che questi impari e scelga nel suo intimo la via del bene. Quest’intento iniziale del nostro secondo patriarca viene mutato allorquando odora gli abiti di Jacov. Lo Sforno in loco suggerisce che l’idea di Izchak era quella di ‘allargare la propria anima’, ossia l’atto di odorare è qui un’intima riflessione di Izchak sulla natura profonda del proprio figlio Jacov e sulle sue necessità. In questo passo è dunque insita la prova di Izchak, che nell’atto di odorare deve rimettere in discussione la propria filosofia e i propri convincimenti. Ed Izchak vince la sua prova giacché egli è ghevurà, forza, quella forza che limita e critica tutto ed in primis se stessi.
Il dilemma di fondo è quale sia la natura di Jacov. La Torà dice espressamente che questi era un uomo integro, che risiedeva nelle Tende, che i nostri Saggi hanno individuato come le tende dello studio della Torà. Jacov è caratterizzato dalla misura della Verità, Emet. Quella vertià che è la sintesi della bontà (chesed) di Avraham e della forza (ghevurà) di Izchak.
Jacov è la verità, chiamta dai mistici anche Tiferet, splendore. Ma a ben vedere il comportamento di Jacov lascia molti dubbi circa la sua veridicità. Il mio Maestro Rav Chajm Della Rocca shlita ricorda spesso che la radice stessa del nome Jacov (ain, kuf, bet) indica ‘inganno’, ‘storto’. Ossia tutto tranne la verità. Il comportamento di Jacov, seppur corretto ad un analisi profonda è quantomeno discutibile sia per quanto concerne i rapporti con il fratello Esav sia per i suoi rapporti con il padre Izchak.
Il Rav Dessler spiega che proprio in questo è la misura della Verità che è in Jacov. Jacov compie degli atti profondamente giusti per quanto ai margini della legalità, che potrebbero lasciar spazio ad ‘imperfezioni di intento’, ma li compie invece con la sola intenzione di adempiere al volere Divino. Verità implica integrità, e l’integrità di Jacov è quella di saper ricomporre e mettere assieme gli aspetti di bontà con quelli di forza, l’amore ed il timore in un unico pilastro al servizio di D-o: la Verità.
Dunque Izchak odora certamente questa stridenza tra ‘la voce è la voce di Jacov e le mani sono le mani di Esav’, e proprio nell’odorare il ‘raggiro’ del figlio decide di benedirlo. Che cosa ha esattamente odorato Izchak?
Nel Talmud (TB Sanedrhin 37 a) Rabbì Zerà sostiene che non dobbiamo leggere ‘beghadav’, i suoi vestiti, ma piuttosto ‘boghadav’, i suoi traditori. Serve un bel po’ di immaginazione apparentemente. L’odore del campo benedetto dal Signore, quell’odore che Rashì dice essere proveniente dall’Eden, dovrebbe essere l’odore dei ‘traditori’ di Jacov? Il Midrash Rabbà va oltre (LXV,22) e dà persino un nome a questi traditori il cui odore ‘paradisiaco’ convince Izchak a benedire Jacov.
“..come ad esempio Josef miShità e Jakum Ish Zerorot. Nell’ora che coloro che ci odiano vollero entrare nel Monte del Tempio dissero: ‘Lasciamo entrare prima uno di loro’. Dissero lui: ‘[Josef] entra e tutto quello che porti fuori è tuo’. Entrò e portò fuori un candelabro d’oro. Dissero lui: ‘Non è adatto ad una persona qualunque, ma entra nuovamente e quello che porti fuori è tuo.’ E non accettò dicendo ‘Non basta che ho adirato il mio D-o una volta, che io lo adiri una seconda volta?’ Che cosa gli fecero? Lo misero in una morsa da carpentiere e lo tiravano su di essa, ed urlava e diceva ‘ohi ohi che ho adirato il mio Creatore’.”
Josef MiShità è l’unico collaborazionista che il nemico trova per entrare nel Santuario ed iniziarne la distruzione, il massimo del tradimento. Eppure basta un commento profondamente vero dello stesso nemico ‘non è adatto ad una persona qualunque’ questo candelabro che costui fa completamente ritorno a D-o e muore martire lamentandosi per il proprio peccato e non per il dolore.
“Jakum Ish Zerorot era figlio della sorella di Rabbì Josè ben Joezer Ish Zeredà ed andava a cavallo di Shabbat quando incontrò suo zio che veniva portato al patibolo. Disse lui: ‘Guarda il cavallo che mi fa cavalcare il mio padrone e guarda il cavallo che ti fa cavalcare il tuo Padrone!’ Disse lui: ‘Se è così per coloro che Lo adirano, a maggior ragione per coloro che fanno la Sua Volontà!’ Disse lui: ‘Ha fatto un uomo la Sua Volontà più di te?’ Disse lui: ‘E se è così per coloro che fanno la Sua Volontà a maggior ragione per coloro che Lo adirano!’. Entrò in lui la cosa come il veleno di un serpente, andò e si sottomise alle quattro pene di morte del Tribunale: lapidazione, bruciamento, uccisione, e strozzamento….sonnecchiò Josè ben Joezer Ish Zeredà e vide il feretro che aleggiava in aria. Disse: ‘In un piccolo momento mi ha preceduto questo qui nel Giardino dell’Eden.’”
Forse ancora più tremendo il secondo racconto. Rabbì Josè ben Joezer era il capo del Sinedrio e viene condannato a morte di Shabbat proprio perché osservava lo Shabbat. Suo nipote, un ellenizzato, non trova meglio da fare che cavalcare di Shabbat e ridicolizzare la fiducia dello zio in D-o e nella Torà. E proprio dopo aver saggiato l’incrollabilità di questa fiducia che viene preso da un rimorso così profondo che lo induce a inventarsi una complessa concatenazione di eventi che gli permettesse di morire contemporaneamente delle quattro possibili esecuzioni che prevede la Torà.
Dunque Izchak odora secondo Rabbì Zeirà l’odore dei traditori di Israele, i peggiori tra i peccatori del nostro popolo. Odora il fatto che questi sono ancora legati alla Verità da un legame sottile che però nel momento critico gli permette di far ritorno a D-o.
È importante per noi capire che i nostri Saggi sono lontanissimi dall’essere eruditi sconnessi dal mondo circostante. Rav Mordechai Elon shlita ricorda spesso che la ricorrente espressione rabbinica ‘hu haià omer’ che generalmente rendiamo ‘egli era [solito] dire’, implica che egli era, prima di dire. Ossia che la vita e le esperienze dei nostri Maestri sono per essi uno strumento fondamentale nello studio della Torà.
Ecco allora Resh Lakish, come noto grande Maestro che aveva fatto teshuvà dopo una gioventù non proprio esemplare, sostenere (alla fine del trattato di Chaghiggà, lo stesso insegnamento è riportato in TB Sanedrhin 37a assieme a quello di Rabbi Zeirà), che il fuoco del Gheinom non domina neppure sui peccatori di Israele i quali ‘sono pieni di mizvot come un melograno’. Egli basa il suo insegnamento sull’interpretazione del Cantico dei Cantici (VI,7) e sul fatto che l’altare d’oro, l’altare sul quale viene quotidianamente offerto l’incenso, è in effetti un altare di acacia ricoperto da un sottile strato d’oro che non permette al fuoco di consumare il legno. A maggior ragione le mizvot dei peggiori ebrei (ed anche loro ne sono pieni come melograni, che hanno secondo la tradizione 613 chicchi, corrispondenti alle 613 mizvot) non permettono che questi vengano colpiti.
Lo steso Rabbì Zerà sa bene quello che dice. Racconta infatti il Talmud nella stessa pagina che questi abitava in un quartiere di malvagi e che si sforzava di far fare loro teshuvà, nonostante la perplessità dei Saggi. Quando questi morì furono gli stessi malvagi del suo quartiere a fare teshuvà dicendo che d’ora in poi, visto che non c’è più chi pregasse per loro, sono loro stessi che si debbono preoccupare.
Ci sarebbe da chiedersi che valenza abbia questa sottile lamina d’oro che ricopre l’Altare e che tiene l’ebreo più lontano legato alla Torà. In effetti la Ghemarà porta l’opinione di Resh Lakish e Rabbì Zeirà a rafforzare una tesi interessante. La Ghemarà infatti sta interpretando un verso del Cantico dei Cantici (VII,3) come descrittivo del Sinedrio. La conclusione di questo verso, che nel senso immediato descrive l’amata del Cantico, dice che ‘il tuo ventre è un cumulo di grano, circondato da rose’. Questa viene intesa così dalla Ghemara: il tuo ventre è un cumulo di grano, così come tutti traggono giovamento da un cumulo di grano così tutti traggono giovamento dagli insegnamenti del Sinedrio; circondato da rose implica il fatto che non servono particolari coercizioni per adempiere alla Torà, basta una recinzione fragile come una siepe di rose. Il sistema legale ebraico si preoccupa molto di più dei contenuti e della responsabilità personale morale dell’individuo piuttosto che di strumenti coercitivi. E la Torà ci impone delle siepi che sono recinzioni fatte di rose che servono a ricordare il senso profondo della Legge piuttosto che ad impedire fisicamente la trasgressione. Un eretico chiede ai Saggi come questi permettano ad una donna mestruata ed a suo marito di essere da soli in una stanza dietro lo slogan: ‘Non è possibile che ci sia del fuoco accanto a delle fettucce di lino e queste non prendano fuoco’. Visto che i rapporti coniugali sono preclusi alla coppia in quel momento, l’eretico vorrebbe precludere anche la possibilità di appartarsi, proprio come per delle persone non sposate. Entrambi hanno desiderio, è impossibile che resistano se sono da soli. Rispondo i Saggi: ‘La Torà ha testimoniato su di noi: ‘Circondato da rose’, persino se [trattenuti dalla trasgressione solo da] una recinzione di rose, non apriranno brecce in essa’.
Dobbiamo rovesciare allora quanto detto fin d’ora. La Torà non si serve di barriere di acciaio ma ci ricorda i suoi decreti con sottili siepi di rose. Per il resto dipende come sempre solo da noi. La dimostrazione di ciò è quanto dicono Resh Lakish e Rabbì Zeirà a proposito dei peccatori di Israele. Questi in un piccolo momento sono in grado di rinascere attraverso quel sottile attaccamento che non è mai venuto meno. Straordinaria in questo senso la concomitanza dei peccatori con i Maestri. Nel caso di Rabbì Zeirà questi fisicamente va a vivere in un quartiere di peccatori. Lo stesso Resh Lakish porta in Chaghiggà il suo insegnamento sui peccatori a risposta di chi sosteneva che il fuoco del Gheinom non domina sui Saggi. Lui dice: nemmeno sui peccatori. Anche qui, nella nostra Ghemarà, non si può capire il senso della sottile siepe ‘circondato da rose’ se non si capisce che il Sinedrio ed i Saggi sono un cumulo di grano e che tutti debbono poter giovare dai loro insegnamenti. Forse è proprio l’attaccamento ai Saggi e la loro vicinanza quel sottile filo che lega anche l’ebreo più lontano. La consapevolezza del fatto che c’è un Maestro al quale chiedere. Che c’è una regola, un comportamento corretto. Questa consapevolezza nella amitat haTorà, nella Veridicità della Torà, a prescindere dal comportamento della persona è quantomeno quella sottile lamina sulla quale si può costruire.
Il Maharam nel suo commento al verso della Genesi con il quale abbiamo aperto, fa notare come la reach, odore, venga sempre in forma duale: ed odorò l’odore. Egli lega questa dualità proprio alla contrapposizione giusti/malvagi. Il Maraham cita due fonti talmudiche: la prima è il passo di cui ci siamo occupati fin qui, la seconda è in Eruvin (21 a-b).
“Ha detto Rav Chisdà: ‘Ha insegnato Mari bar Mar: ‘Che significa quanto è scritto (Geremia XXIV,1-2): ‘Ed ecco due canestri di fichi posti dinanzi al Santuario…il primo cesto di fichi molto buoni come i fichi pregiati ed il secondo cesto di fichi molto cattivi, immangiabili per quanto cattivi’? I fichi buoni sono i giusti completi, i fichi cattivi sono i malvagi completi. E se tu dovessi dire è persa la loro speranza ed è cessata la loro possibilità, insegna il testo (Cantico dei Cantici VII,14) ‘I canestri hanno dato odore, sia questi che questi sono destinati a dare [buon] odore.’’”
Di nuovo l’idea è che l’odore che odora Izchak si compone dell’odore dei giusti e di quello dei malvagi, e persino l’odore dei malvagi è destinato a divenir buono.
Ma la Ghemarà non si accontenta e riflette ancora sul verso del Cantico dei Cantici in questione spiegando anche la conclusione di questo.
“Ha insegnato Ravà: ‘Che significa quanto è scritto: ‘I canestri hanno dato odore’? Questi sono i giovani di Israele che non hanno assaporato il sapore del peccato [sessuale].” E prosegue a spiegare il seguito del verso: ‘e alle nostre porte ogni frutto prelibato [megaddim]’, queste sono le figlie di Israele che narrano [magghidot] lo stato delle loro porte ai loro mariti (i.e. che avvertono i loro mariti se hanno il ciclo). Un’altra interpretazione: che chiudono (Oghdot) le loro aperture [ad altri] che ai loro mariti.”
L’idea di fondo dietro a questo richiamo alle regole della condotta sessuale è la fedeltà reciproca ed il rispetto delle regole legate alla purità della famiglia come pilastro della casa ebraica. Ma non dimentichiamo che il Cantico è allegoria anche del rapporto tra Israele e D-o e dunque quei valori di fedeltà che ci vincolano tra uomini sono gli stessi che regolano il nostro rapporto con l’Eterno, e viceversa. La Ghemarà prosegue infatti commentando la fine del verso:
“‘nuovi e vecchi, oh mio amato io li ho riservati per te’. Ha detto la Congrega di Israele: ‘Padrone del Mondo, ho decretato su di me molti più decreti di quanti Tu non ne abbia decretati su di me, e li ho osservati.’”
Il rapporto di fedeltà con D-o dunque risiede nel fatto che la Congrega di Israele ha decretato su di se molto più di quanto D-o non abbia fatto. Ossia la Torà Orale. La Torà Orale e l’insegnamento dei nostri Maestri sono il legame di fedeltà con D-o. Ed infatti così interpreta la Ghemarà proseguendo un famoso verso del Koelet (XII,12):
“‘…e più di quelle oh figlio mio stai attento a fare molti libri (sefarim)’ Figlio mio stai attento alle Parole degli Scribi (Soferim, i Maestri), più delle parole della Torà, dato che nelle Parole della Torà c’è in esse fai e non fai (e non su tutte c’è pena di morte) e Le Parole degli Scribi, chiunque trasgredisca le Parole degli Scribi è reo di morte!”
La Torà orale è il pilastro della cultura ebraica e richiede paradossalmente più attenzione della Torà scritta. Non per tutte le regole della Torà è infatti prevista la pena di morte, mentre chiunque trasgredisce un insegnamento rabbinico è reo di morte! Rabbenu Jonà spiega che chi trasgredisce una mizvà della Torà lo fa solo perché non ha resistito al proprio istinto mentre generalmente si da meno importanza agli insegnamenti rabbinici sicché la trasgressione di questi è più grave in quanto evidenzia una mancanza di rispetto nei confronti del sistema rabbinico.
Non è un caso che lo stesso Rabbì Zerà insegna che ‘le figlie di Israele esse sono state rigorose con loro stesse, che persino se vedono una goccia di sangue come un coriandolo, siedono per essa sette giorni puliti.’ Ossia che dietro le regole del periodo mestruale c’è una spontanea decisione delle figlie di Israele, una Torà Orale delle figlie di Israele.
E Salomone nello scrivere il Koelet è conscio della prossima domanda e risponde subito dicendo ‘a fare molti libri senza fine’. ‘..se tu dovessi dire se c’è sostanza (nella Torà Orale) perchè non sono state scritte? Ha detto il testo : ‘a fare molti libri senza fine’.
Non si può circoscrivere la Torà in un solo libro, neanche in un Sefer Torà. Essa non ha fine. Non ha senso chiedersi come mai Iddio non ci abbia dato tutto il Suo Volere per scritto, il Suo Volere è che la vita di ogni ebreo sia la pergamena sulla quale ognuno di noi ha l’obbligo di scrivere la sua Torà. L’Eternità della Torà è proprio nella sua dinamicità. La Torà ha un senso quando la si studia.
Nella benedizione che precede lo studio della Torà noi benediciamo Iddio che ci ha scelto tra i popoli e ci ha dato la Sua Torà. Nella benedizione dopo lo studio noi diciamo: ‘.. che ci ha dato la Sua Torà, una Torà di Verità e Vita eterna ha piantato in mezzo a noi..’ Proprio questa seconda benedizione lega in maniera indissolubile la Torà data in dono, con la Torà che si studia che è la Vita Eterna piantata in noi. Solo quando c’è Torà Orale, la Torà dello studio, La Torà è Torà di Verità. Torat Emet. La Torà di Jacov che studiava dai propri Maestri: non solo Avraham ed Izchak ma anche e soprattutto Shem ed Ever.
Ed il rispetto per la Torà Orale non esclude nessuno.
“Hanno insegnato i nostri Maestri: ‘Accadde quando Rabbì Akivà era recluso in prigione e Rabbì Jeoshua HaGarsì lo serviva. Ogni giorno gli facevano entrare acqua in misura [limitata]. Un giorno lo trovò il guardiano della prigione [a Rabbì Jeoshua HaGarsì] e gli disse: ‘Oggi le tue acque sono troppe, forse che devi scavare [un uscita] dalla prigione? Gliene versò metà e gliela rese metà. Quando venne da Rabbì Akivà gli disse [RabbìAkivà]: ‘Jeoshua! Non sai che sono vecchio e che la mia vita dipende dalla tua?’ [Questi] gli racconto l’accaduto. Disse lui: dammi l’acqua sicchè faccia netillat yadaim,’ Disse: ‘Non bastano per bere, bastano per fare [anche] netillat yadaim?’ Disse lui: ‘che dovrei fare? Si è rei su di esse [sulle regole rabbiniche come la netillat yadaim] di morte; è meglio che muoia per conto mio [di sete] e che io non trasgredisca l’opinione dei miei colleghi. E dissero che non assaggiò nulla fintanto che non gli portò acqua e fece nettilat yadaim. Quando i Saggi ascoltarono la cosa dissero: ‘Se è così nella sua vecchia, nella sua gioventù a maggior ragione, e se è così in prigione, a maggior ragione non in prigione.’”
Il racconto è straordinario se lo si lega alla terribile morte che aspetta Rabbì Akivà proprio tra le mura di quel carcere e la sua incrollabile fiducia, non solo in D-o, ma soprattutto nella Torà, e nella Torà Orale. Rabbì Akivà che riderà per aver capito come si ama Iddio con tutte le proprie forze è arrivato a tale comprensione proprio attraverso il rispetto della Torà Orale persino nelle condizioni precarie del carcere.
Nonostante ciò c’è da chiedersi che senso abbia quanto commentano i Saggi in proposito. ‘Se è così nella sua vecchia, nella sua gioventù a maggior ragione, e se è così in prigione, a maggior ragione non in prigione.’
Non ha senso! In primo luogo è palesemente noto che in momenti critici si trova la forza per fare cose altrimenti impensabili e dunque non è detto che fuori dal carcere la condotta è necessariamente migliore. Ma soprattutto: come si fa a lodare la gioventù di Rabbì Akiva quando è noto che questi fu un ignorante fino a quaranta anni! I Saggi sanno esattamente quanto ci stanno dicendo. Se si vuole capire la veneranda vecchiaia ‘coronata’ dal martirio, si deve capire la gioventù. Non importa se questi era un ignorante: un bel giorno mentre pascolava il suo gregge ha visto che l’acqua scava la pietra ed ha capito che è ora di iniziare a studiare. Nella sua giovinezza di ignoranza ha saputo raccogliere un segno che gli è stato inviato. Il carceriere romano non può sapere che l’acqua che non vuole dare al vecchio Akivà per paura che scavi nella pietra del carcere ha già scavato il suo cuore molto tempo prima. Non capisce che quell’acqua gli ha permesso di saper scegliere tra il precetto di lavarsi le mani ed il bere. Tra le acque superiori e quelle inferiori. Rabbì Akivà è colui che quando entra nel Pardes dice ai suoi compagni di non gridare ‘acqua, acqua’ nello scorgere le grandi pietre di marmo. Si deve saper essere calmi e cauti come la pietra per saper scegliere tra le acque.
Dunque in questo senso capiamo la scelta di Izchak. Jacov ha bisogno delle benedizioni materiali, quelle della superficialità, proprio per i peccatori che sono in lui. Non perché la materia possa incidere positivamente sullo spirito. Ma perché questa possa stimolare la superfice del peccatore e questi faccia penetrare l’acqua della Torà nella pietra del suo cuore.
Il Targum Jonathan dice che Izchak sentì sugli abiti di Jacov l’odore dell’incenso. E questa è appunto la chiave di lettura di questo straordinario passo. L’incenso si compone di diversi odori, di cui almeno uno palesemente sgradevole. La forza dell’incenso è quella di tirar fuori un buon odore anche dalla componente maleodorante. La forza di Israele è quella di tirar fuori Torà anche dai peccatori.
Ed è proprio partendo dalla struttura dell’altare d’oro dell’incenso che Resh Lakish ha detto che persino i peccatori di Israele sono pieni di mizvot come melograni.
L’incenso ci ricorda il segreto del servizio di Jacov. La Verità. Il saper mettere assieme forza e bontà, peccatori e giusti, maestri ed alunni, padri e figli, acqua e pietra. Emet LeJacov, Verità a Jacov, significa servire Iddio capendo che non si può scegliere uno dei canestri, quello dei fichi buoni e non curarsi dell’altro canestro. Anche quello deve dare buon odore perché si arrivi alla Verità. E così Jacov nostro padre meriterà dodici figli tutti giusti, e nessuno dei sui canestri verrà trascurato, diversamente da quanto accadde ai figli di Avraham (Ishmael) ed Izchak (Esav).
La Casa di Jacov è la Congrega di Israele. È una casa di Verità e Splendore, non perché siano tutti perfetti. Piuttosto perché l’unione e la coesione della Casa con le sue regole che noi abbiamo reso più rigorose, fa prendere un buon odore anche a chi, se lasciato solo, sarebbe stato maleodorante.
Quando si è Verità e coesione si possono indossare le pelli che Iddio aveva fatto ad Adam dopo il peccato, quelle pelli con le quali Nimrod aveva sottomesso il mondo contro D-o, e che erano finite in mano di Esav. Si possono indossare quelle pelli che Rashì dice essere quanto di peggio ci sia in termini olfattivi, e sprigionare da esse l’odore dell’incenso, l’odore del Giardino dell’Eden.
Negli ultimi tre Shabbatot abbiamo approfondito le tre misure che caratterizzano i Padri: Chesed, Ghevurà ed Emet (Tiferet).
Rav Somek shlita in un suo articolo sulla rivista Segullat Israel riporta un insegnamento del Chidà, il grande maestro livornese. Egli dice che le comunità di Israele sono paragonabili proprio a queste tre misure. I Sefarditi assomigliano al chesed, gli ashkenaziti a ghevurà e gli italiani a tiferet. Ognuno ha il suo percorso al servizio del Signore proprio come i padri.
Mi pare che un buon proposito per preservare nelle nostre comunità quella qualità di Jacov nostro padre che il grande Maestro sefardita ci attribuisce, è proprio il riscoprire la capacità di unire nella Verità. Nell’assistere chi è meno ferrato nell’osservanza della Torà, nell’avvicinare gli smarriti. Nell’essere come il Ketoret, profumo gradito fatto di diversi che sanno dare buon odore a chi non ne ha.
Shabbat Shalom,
Jonathan Pacifici
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