Maoz Tzur

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Potente, lodato al di là di ogni confronto rocca della mia salvezza ricostruisci la mia casa di preghiera.

Per la Tua abitazione! Offerte e libagioni, un popolo disperso gioioso vi porterà e canterà salmi di dedicazione!

Mia era la sventura in terra d’Egitto (re tiranni mi avevano reso schiavo) finché la Tua potente mano distesa non mi salvò dall’oppressione.

Il Faraone, inseguendomi veloce, prometteva la mia rapida rovina; ma ben presto il suo esercito, quell’orgoglioso vanto, cadde sotto le onde!

Sulla Tua sacra collina mi rendesti chiara la via; io mi smarrii dietro falsi dèi, nemici mi portarono in esilio.

Strappato a tutto ciò che amavo io quasi perii; Babilonia cade, Zerubabel ordinasti di restituirmi!

Poi venne il vendicativo Aman pensò sottilmente di tradirmi; lui stesso cadde nella sua trappola, lui che aveva organizzato la mia uccisione. (Fu trascinato via dal palazzo di Ester, impiccato alla sua stessa forca). Il sigillo e l’anello il re di Persia dette al Tuo zelante servitore.

Quando i coraggiosi Asmonei spezzarono la catena greca, attraverso il santo olio Tu mostrasti un miracolo al Tuo popolo. Sempre pieno rimase il recipiente non profanato; questi otto giorni luce e lode furono perciò ordinate.

Oh Signore, metti a nudo il Tuo santo braccio, ti sia caro il sangue dei miei martiri, giudica ogni nazione colpevole. Lunga è la mia prova, triste la mia tribolazione, ordina dal Cielo, ai tuoi sette pastori, di affrettare la mia salvezza!

Quel lume alla finestra

Rav Scialom Bahbout

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La storia di Hanukkah, così com’è narrata nel Talmud, è molto strana e ancora più strano è il fatto che i Maestri abbiano fatto dell’episodio dell’ampolla d’olio e dell’accensione dei lumi l’elemento centrale della festa, una festa che è bene ricordare è l’unica stabilita in epoca postbiblica accettata da tutto Israele nel corso delle generazioni.

Hanukkah deriva da una radice ebraica che ha vari significati e può essere tradotta con inaugurazione, in ricordo dell’inaugurazione del Tempio fatta dai Maccabei, oppure con consacrazione e destinazione di un oggetto alla sua funzione: quindi nel caso specifico, significa riconsacrazione del Tempio profanato dagli Ellenisti, per restituirlo alla sua primitiva funzione.

La radice Hanukkah, da cui derivano Hanukkah e hinnukh (educazione), significa anche “educare”. La rivolta ebraica scoppiò quando il nemico greco tentò di colpire proprio le radici culturali e religiose del popolo e più precisamente, quando i Seleucidi, dominatori della Giudea, imposero agli ebrei di abbandonare progressivamente le proprie tradizioni, costringendoli ad adorare gli idoli nel Tempio di Gerusalemme. Di fronte al pericolo della perdita della propria identità, gli ebrei si opposero e organizzarono una resistenza che fondava le proprie basi sull’adesione all’educazione ebraica.

Contro un nemico militarmente più agguerrito, gli ebrei opposero la propria determinazione nel difendere la propria cultura e il diritto alla diversità contro il livellamento culturale imposto dalla cultura ellenista imperante. Non sappiamo con certezza quale sia il significato della storia dell’ampolla d’olio rimasta pura tra le macerie del Tempio: forse essa rappresenta il manipolo di persone sempre pronto a lottare per difendere la propria identità e dignità ebraica, a Gerusalemme come a Buchenwald. L’olio, che sembra bastare per una sola generazione, si rivela sufficiente per alimentare lo spirito ebraico non per sette generazioni (un numero che rappresenta la sopravvivenza dell’uomo nei limiti della natura e della storia), ma per sette + uno, cioè per infinite generazioni, per un tempo che trascende la storia e la natura.

Il miracolo di Hanukkah è davvero strano: gli ebrei credono che ogni anno, nel momento in cui un ebreo accende il proprio lume, il miracolo si compia ancora: è il miracolo della sopravvivenza di una piccola minoranza in un mondo che non ha ancora assimilato l’idea che si può essere diversi, ma godere di eguali diritti.

Il lume di Hanukkah va acceso vicino alla finestra, in modo che sia ben visibile dall’esterno. Questo gesto ha sì lo scopo di rendere pubblico il miracolo e quindi rendere partecipi anche gli altri della gioia e del mistero della sopravvivenza del popolo ebraico, ma è anche un invito a tutti gli uomini a non lasciarsi intimidire da ogni sorta di prevaricazioni e sopraffazioni.

Ma in questa lotta per i propri diritti, pur muovendosi tra le macerie, a Gerusalemme come ad Buchenwald, ieri come oggi, importante è riuscire a non perdere mai di vista i valori che devono caratterizzare la vita dell’uomo. Per l’ebreo questi valori si devono affermare salvaguardando la propria dignità umana ed ebraica, anche nelle condizioni più disperate. Mantenere la Kedushà (santità) dell’immagine divina che è in ogni uomo è stata una delle imprese più difficili per gli ebrei che sono passati attraverso l’esperienza terribile dei campi di concentramento nazisti.

La resistenza ebraica al nazismo viene identificata con la rivolta armata del Ghetto di Varsavia e degli altri Ghetti, una lotta attraverso la quale gli ebrei avrebbero riguadagnato la propria dignità e il proprio diritto alla vita. Non dobbiamo tuttavia dimenticare un’altra resistenza, meno eclatante, ma non per questo meno importante: molti ebrei sono riusciti a mantenere alto l’onore d’Israele rifiutandosi di accettare la logica dell’assassino che voleva distruggere l’ebreo nella sua umanità ebraica, prima ancora che nel suo corpo. La resistenza armata è stata per molto tempo giustamente messa in primo piano: c’è da chiedersi se non sia doveroso oggi ricordare con orgoglio anche la resistenza che, giorno dopo giorno, gli ebrei sono stati capaci di opporre al nazismo nei campi di concentramento.

La nostra generazione, che ha avuto il privilegio di vedere ricostruito il “corpo” d’Israele, ha anche la responsabilità di muoversi con urgenza e determinazione per ricostruire lo “spirito” e la cultura d’Israele.

Per accendere, ancora una volta, la propria Hanukkah.

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Due racconti

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A Gerusalemme intorno all’anno 164 A.E.V.

Cosa è Hanuklah? Hanno insegnato i Maestri: il 25 del mese di Kislev iniziano gli otto giorni di Hanukhah, giorni in cui non si possono fare manifestazioni di lutto e non si può digiunare. Quando i greci entrarono nel Tempio, resero impuro tutto l’olio, e gli Asmonei, dopo aver sconfitto il nemico greco, cercarono e non trovarono che una sola ampolla d’olio, che era rimasta pura, perché ancora chiusa con il sigillo del Sommo sacerdote. Questa ampolla sarebbe bastata per illuminare il Tempio un solo giorno. Accadde un miracolo con quella ampolla, e così essi poterono accendere il lume per otto giorni. L’anno seguente stabilirono di rendere quei giorni, giorni di festa e di lode.

(Talmud Shabbath 21b)

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A Buchenwald nel 1944

Inverno 1944. Campo di concentramento di Buchenwald. Blocco 62. 400 internati ebrei. Dopo cinque anni e mezzo di terrore, 400 internati ebrei, ormai ridotti a scheletri, quasi larve umane.

Sui giacigli di legno si ammassano per dormire fino a 14 persone, uno sull’altro. Non ci si può rigirare nel letto senza svegliare tutti gli altri, quasi si trattasse di una catena umana. È l’ora della distribuzione del cibo. Vengono portate due grandi pentole e due internati di turno provvedono alla distribuzione. Il tedesco di guardia controlla la situazione. Ognuno riceve 150 grammi di pane: la razione giornaliera; un bicchiere di acqua calda che osano chiamare té e qualche volta una razione di margarina. Duecento grammi di margarina da dividere in 16 parti.

Finita la distribuzione del cibo, gli addetti alla distribuzione chiedono all’S.S. tedesco cosa fare dei resti di margarina avanzati nella pentola. Il tedesco si fa portare la pentola. Prende i pezzi più grossi di margarina, quelli ancora solidi e divertito grida: “ora li getto per aria e chi li prende sono suoi”.

A Buchenwald non mancano davvero persone che per la fame e per le molte sofferenze, hanno perso il senso della propria dignità ed ora sono lì, pronte a gettarsi ai piedi del tedesco pur di racimolare un po’ di margarina che forse permetterà loro di sopravvivere alla prossima selezione. Ed ecco che un terribile groviglio umano si forma ai piedi del tedesco. Ed egli gode alla vista ditale spettacolo.

Nel blocco 62 c’è un vecchio. Non sembra aver paura delle selezioni. Quella margarina a lui non sembra importare. Egli mantiene uno sguardo e un portamento altero. Anche in quell’inferno non ha perduto la sua umanità e cerca di aiutare gli altri come può: con una buona parola, o privandosi di una parte del suo cibo. E neppure la sua dignità ha perduto il vecchio. Per questo non fa mai parte del groviglio umano che si gettava ai piedi del tedesco per conquistarsi un avanzo di margarina.

Ecco un giorno, finita la distribuzione, il solito terribile rito si ripete. Il pane, il tè e la margarina sono ormai stati distribuiti e gli internati del blocco 62 assistono ad un insolito spettacolo: il vecchio che si getta sulla margarina e rimane disteso per terra finché non è ben sicuro che la margarina che è riuscito a racimolare è al sicuro.

Anche lui, il vecchio, quello che sembrava essere il simbolo della dignità da non perdere, aveva ceduto, era crollato di fronte a una realtà disumanizzante. Anche lui aveva venduto la propria dignità per un po’ di margarina.

Il vecchio si alza lentamente e qualcuno degli internati, mosso a pietà, gli consegna il proprio pezzo di margarina. E tra la meraviglia dei presenti, il vecchio li accetta. Poi, rifugiatosi in un angolo, il vecchio ebreo aspetta che il tedesco esca.

Fa freddo a Buchenwald e la margarina nelle mani del vecchio è solida, ma lui la tiene vicino al bicchiere di té caldo e la margarina comincia a sciogliersi. Sembra impazzito, tira con forza i bottoni dalla sua vecchia divisa da internato e li strappa via. Anche lui a Buchenwald ha ceduto alle lusinghe della pazzia, convengono gli altri internati. Con gesti convulsi prende a sfilare alcuni fili dai lembi del vestito. Il vecchio si alza in piedi, ha in mano i bottoni, i fili e la margarina liquida e grida ai 400 internati del blocco 62 di Buchenwald:

“Ebrei! oggi è Hanukkah”

Dopo cinque anni e mezzo di terrore, quel vecchio, senza calendario ebraico, senza radio, senza alcun collegamento con l’esterno, era riuscito a tenere i conti, non aveva perso la nozione del tempo ed era riuscito a stabilire la data di Hanukkah. Sapeva con precisione quando cadeva Hanukkah e in quale giorno della festa si trovavano: aspettava solo il giorno della distribuzione della margarina.

Prende i bottoni e li mette per terra; poi prende i fili e li infila nei bottoni e versa un po’ di margarina sui bottoni. Ecco… adesso aveva tutto ciò che gli era necessario per accendere i lumi di Hanukkah.

Una persona arrotola un pezzo di carta e, dopo essersi arrampicato sulle spalle di un altro internato, lo accende usando il fuoco della lampada a nafta che illuminava debolmente il blocco. Poi lo consegna al vecchio, che, in piedi, in mezzo ai quattrocento internati, accende e i lumi recitando le benedizioni:

Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che ci hai consacrato con i tuoi precetti e ci hai comandato di accendere i lumi di Hanuklah.

Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che hai operato miracoli ai nostri padri in quei giorni, in questo tempo.

Benedetto sii Tu, o Signore, Dio nostro re del mondo che ci hai mantenuto in vita e d hai fatto giungere a questo tempo.

Solo allora, tutti i prigionieri che avevano seguito la scena in silenzio, cominciano a cantare, dapprima a bassa voce, ma poi sempre con maggior forza Maoz zur yeshuati. Il canto dei 400 internati si fa sempre più forte, nel blocco 62 del campo di concentramento di Buchenwald. La porta del blocco viene aperta con violenza, e al Kapò e all’SS di guardia del blocco, si presenta uno spettacolo incredibile: i quattrocento internati, per un momento, avevano riacquistato la loro libertà, come al tempo degli Asmonei: cinque anni e mezzo di terrore avevano fiaccato il loro corpo, ma non il loro spirito.

Racconto orale (L’episodio è citato anche in Pardes Harlukkà, Petachia Rosenwasser, Ed. Zekher JeruBalem, pag. 327)

Rav Scialom Bahbout

La Hanukkah dei patriarchi

Rav Riccardo Di Segni

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Secondo un principio stabilito dai Rabbini del Talmud, “i Patriarchi biblici osservarono l’intera Torà (che non era stata ancora promulgata), conoscendola grazie ad una sacra ispirazione”, e l’intera Torà comprende, secondo Rashì (commento a Gen. 26:5), anche la tradizione rabbinica. È un principio che solleva molte perplessità, anche davanti ad esplicite contraddizioni, ma che se viene esaminato in profondità mostra una concezione della storia e della Torà particolarmente forte ed originale. Restando nell’ottica di questo principio ci si potrebbe chiedere se e quando i Patriarchi celebrarono Hanukkah. La domanda sembra apparentemente assurda; Hanukkah è una festa istituita molto più tardi, nel II secolo avanti l’era volgare, per ricordare un avvenimento storico preciso. Eppure la riflessione su questa domanda provocatoria, apparentemente senza senso, aiuta a comprendere sia le motivazioni della strana idea rabbinica sul rapporto dei Patriarchi con la Torà, che il significato profondo di Hanukkah.

Il precetto fondamentale di Hanukkah, come è ben noto, è l’accensione dei lumi, preceduta dalla recitazione di benedizioni, di cui la più specifica dice: “Benedetto… il Signore… che ci hai comandato di accendere i lumi di Hanukkah”. Ma il precetto di accensione dei lumi è senza dubbio una norma rabbinica, di cui la Torà ovviamente non parla. Ma allora perché attribuire al Signore l’origine di un obbligo che è invece chiaramente di istituzione umana? Altri precetti rabbinici si segnalano per lo stesso paradosso, ma solo per questo di Hanukkah il Talmud (Shabbat 23a) si interroga (“Dove mai ci ha comandato?”) alla ricerca di una spiegazione. La risposta ‘tecnica’ è che quando i Rabbini stabiliscono una norma e danno un precetto, hanno una sorta di delega divina, per cui è come se l’ordine fosse stato dato dal Signore stesso. Eppure il fatto che proprio su questa norma di Hanukkah il Talmud sollevi una questione di legittimità, per risolverla con una generica dichiarazione di principio sull’autorità rabbinica, deve far riflettere sui significati più profondi e nascosti della festa.

Hanukkah è il luogo di tanti paradossi e contraddizioni, e la sua istituzione sembra venire di necessità a colmare uno strano vuoto. Ciò perché malgrado la sua tarda istituzione i significati più o meno nascosti della festa sono tanti, di origine remota e possibilmente conflittuali. Non c’è solo l’opposizione tra la commemorazione di una rivolta militare (che portò al potere una dinastia che avrebbe perseguitato i rabbini) e un significato religioso (il miracoloso aiuto divino a chi lotta per difendere la propria identità); ma c’è anche la celebrazione di un evento del ciclo annuale (il solstizio invernale), potenzialmente carico di rischi di festa pagana; e c’è un legame con il ciclo agricolo, quello del tempo della raccolta delle olive. Di tutto questo la tradizione ha privilegiato senza dubbio l’elemento religioso, la lotta in difesa del culto monoteistico, l’eliminazione dell’idolatria, la scelta sofferta di accettazione della Torà da parte della comunità di Israele, la preparazione al servizio divino con un nuovo altare restaurato, e tutto questo nella fiducia nell’aiuto divino, che protegge il suo popolo dai suoi nemici nel momento in cui Israele torna a cercare il Signore.

Nella coscienza rabbinica, ma anche nella percezione collettiva del popolo ebraico, questo tema non può essere legato ad un unico evento storico, ma rappresenta una situazione che si ripete. E allora la domanda se vi sia nella Torà e in particolare nelle storie dei Patriarchi un modello di Hanukkah antica e primordiale non è più una stranezza e un paradosso, ma una legittima richiesta di ricerca storica e ideologica. In effetti è possibile identificare una situazione con molti punti di contatto nella storia dei Patriarchi, in Genesi 35 (Parashath Wayshlach).

Subito dopo il drammatico episodio di Dinà, Giacobbe riceve l’ordine di partire verso Beth El con tutta la sua famiglia; Giacobbe quindi ordina alla famiglia di “allontanare gli dei stranieri” prima della partenza. Beth El era il luogo in cui Giacobbe aveva visto in sogno la scala e dove aveva eretto una stele, giurando di trasformarla in casa divina. Al suo ritorno nella terra di Canaan giunge per Giacobbe il tempo di mantenere la promessa, ma si frappongono molti ostacoli, e per ultimo l’episodio di Dinà, con tutte le sue conseguenze: pericolo di vendetta da parte dei popoli vicini, ma anche pericolo di assimilazione e di paganesimo. “Gli dei stranieri” che Giacobbe comanda di eliminare, erano, secondo il midrash, quelli presi dal bottino di Shekhem (cft. Rashi a Gen. 35:2) il che dimostra da un lato che malgrado la circoncisione loro imposta i Sichemiti non avevano rinunciato all’idolatria (cfr. Nachai Qedumim a Gen. 34:13), e dall’altro che il pericolo di idolatria e di influenze negative esterne era forte nella stessa famiglia di Giacobbe e nella stessa terra di Canaan. Per questo Giacobbe ordina l’eliminazione dell’idolatria e la purificazione, secondo uno schema che sarà ricorrente nella Bibbia, con le stesse parole (cfr. Gios. 27:23, Giud. 10:16, I Sam. 7:3, 2 Cron. 33:15), e che rappresenta costantemente il desiderio di ritorno della comunità al Signore e la condizione per il ritorno del Signore alla protezione della sua comunità. Solo dopo questo è possibile partire per Beth El ed erigervi una casa e un altare, che sono, a confronto con la primitiva stele, il segno di un nuovo culto, in cui il popolo partecipa in comunione e riceve i precetti divini (cfr. N. Leibowitz, ‘Yiurum besefer Bereshith 270-275). Accettando questo giogo, viene in soccorso l’aiuto divino: “la paura del Signore fu sulle città…” (Gen. 35:). Malgrado gli aspetti terribili del fatto di Shekhem, e l’esplicita condanna che ne fa Giacobbe (che rappresentano un modello primordiale delle perplessità rabbiniche sul tema della violenza armata che caratterizza la rivolta dei Maccabei e il trionfo della casa Asmonea), esistono nelle motivazioni dei protagonisti delle componenti positive, come l’intenzione di lottare contro l’idolatria e in particolare contro coloro che con la forza o la seduzione vogliono conquistare le persone e le anime di Israel. Non a caso uno dei due combattenti è Levi, antenato di Pinchas e antenato dopo molti secoli della famiglia dei Maccabei. Dunque l’intero racconto è quello di una sorta di Hanukkah patriarcale, dove compare il motivo della lotta contro l’idolatria esterna ed interna, il paradosso della violenza e della sua difficile valutazione, e poi la purificazione e l’erezione dell’altare, sotto l’ala protettrice divina. Manca solo il lume, ma l’olio già c’è, nelle due prime volte che viene citato nella Bibbia: quando Giacobbe lo versa sulla stele che ha eretto a Beth El, e quando viene nuovamente versato sull’altare alla fine del racconto.

Il tema del miracolo di Hanukkah dunque è molto più antico di quello dei tempi dei Maccabei, così come l’olio che brucia in ogni hanukkià esprime una speranza sofferta e complessa, profondamente radicata nella coscienza ebraica senza limiti di tempo.

Rav Riccardo Di Segni

Dalla Testa ai piedi

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Dedico il seguente articolo, tratto da un discorso pubblico del Lubavitcher Rebbe, z”l, ai miei cari amici oggi sposi Maurizio e Micol Molinari. Per Maurizio e Micol l’importante yom ha-hatunà cade durante la festa dei lumi, Hanuklah. Secondo alcuni minaghim si usa accompagnare la sposa alla hupà con due candele. La spiegazione viene dalla ghematrià: il valore numerico di “ner” (candela) è di 250 che, moltiplicato per due, dà 500 ovvero la stessa cifra che si ottiene sommando il numero degli organi dell’uomo (248) e della donna (252).

Il mio augurio più sincero è che la “somma” di Maurizio e Micol generi una grande luce di “pru urvu” così da far entrare fisicamente e spiritualmente la Torà e le mitzwot nella loro casa e di trasmetterle quindi a tante altre famiglie.

Rav Ytzchak Hazan

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La festività di Hanukkah commemora la vittoria degli Asmonei contro i Greci, e la susseguente riconsacrazione del Beit Hamikdash. Quando gli Asmonei vollero accendere la Menorà, scoprirono che i Greci avevano contaminato l’olio e poterono trovare solo una bottiglia di olio d’oliva puro sufficiente all’accensione di un solo giorno. L’olio miracolosamente durò otto giorni. Questo miracolo viene commemorato ogni anno dalla mitzvà dell’accensione delle luci di Hanukkah.

I lumi di Hanukkah differiscono da tutte le altre luci accese per compiere una mitzvà. Ci sono due categorie generali di luci. Alla prima categoria appartengono quelle non per scopo d’illuminazione, ma solo per marchio di rispetto od onore. Per esempio accendiamo lumi in una sinagoga in onore della casa di D-o. Dunque non possiamo usare queste luci per l’Havdalà poiché quelle dell’ Havdalà sono specificamente per l’illuminazione.

Nella seconda categoria ci sono luci che servono per l’illuminazione. I lumi dello Shabbat, ad esempio, vengono accesi per portare pace alla casa permettendo alla gente di vedere ciò che sta facendo. Lo scopo delle luci della Menorà nel Beit Hamikdash era anch’esso per l’illuminazione, come detto: “I sette lumi illumineranno”. I lumi di Hanukkah sono similmente accesi per diffondere luce.

Ma c’è una differenza fra le luci di Hanukkah e quelle del Shabbat e del Beit Hamikdash. L’illuminazione prodotta da queste ultime ha uno scopo specifico: di Shabbat, apportare pace; nel caso del Beit Hamikdash, rendere testimonianza all’umanità che la Presenza Divina risiede in Israele. L’illuminazione delle luci di Hanukkah invece non ha nessun altro scopo se non quello dell’illuminazione stessa.

Sono altre le ragioni per le luci di Hanukkah, per esempio “rendere pubblico il miracolo”. Il loro fine è l’illuminazione stessa. La prova? Anche quando le luci di Hanukkah vengono accese senza pubblicità, la mitzvà è stata compiuta validamente. Ma se i lumi dello Shabbat non contribuiscono alla pace non si può fare la benedizione su questi lumi.

La ragione di questo risiede nella speciale natura di Hanukkah. Gli elementi di Hanukkah – i decreti dei Greci ai tempi degli Asmonei, il mesirut nefesh (auto sacrificio) degli Ebrei, i miracoli risultanti, e la mitzvà dell’accensione delle candele di Hanukkah – toccano il legame fra gli Ebrei e D-o, un legame che trascende la comprensione.

Il decreto promulgato dai Greci Siriani, era di far “dimenticare la Tua Torà e violare i decreti della Tua volontà” agli Ebrei. I Greci adoravano la conoscenza. A loro non importava se gli Ebrei apprendevano la saggezza della Torà. Ciò che obiettavano violentemente era l’idea che la Torà provenisse da D-o – “la Tua Torà”, – e non che gli Ebrei mantenessero le mitzvot per qualunque ragione. Ciò che odiavano era il compimento delle mitzvot semplicemente perché era la volontà di D-o. In breve, i Greci combattevano contro la natura divina della Torà e delle mitzvot.

Per questa ragione i Greci contaminarono l’olio nel Beit Hamikdash. Il concetto di purità trascende la comprensione razionale. Non c’è motivo per cui una persona morta causi impurità ed un Mikvè purifichi. È un decreto di D-o: “Ho aborrito statue e decretato decreti e non potete trasgredire il Mio decreto”. Poiché l’idea dell’impurità trascendeva la comprensione i Greci la combattevano e contaminarono tutti gli olii nell’Hehal (santuario interno del Beit Hamikdash).

Nonostante gli Ebrei fossero pochi contro i molti e non potessero vincere la guerra contro i Greci, essi mostrarono mesirut nefesh per amore di D-o, della Sua Torà e delle mitzvot. Sfidando la logica ed il ragionamento si gettarono così con autosacrificio nella battaglia contro i Greci.

D-o, ripagando “misura per misura” rivelò il suo legame speciale con il popolo ebraico, trascendente anch’esso la ragione. Compì il miracolo dell’olio, un miracolo che servi solo a mostrare il suo amore per Israele. Il vero amore non dipende dalla ragione; proviene dalla propria essenza, e trascende la ragione stessa. Per cui i nostri saggi istituirono l’accensione delle candele come principale commemorazione di Hanukkah.

Ed è per questo dunque che l’illuminazione delle luci di Hanukkah è un fine in sé e non un mezzo per un altro scopo. Siccome le luci di Hanukkah simbolizzano il legame essenziale fra D-o e gli Ebrei trascendente tutti i limiti, non possono sussistere per altri scopi.

Come prima menzionato, il comune denominatore tra lo Shabbat, il Beit Hamikdash e i lumi di Hanukkah è che tutti danno luce. Il Talmud dice “non c’è luce eccetto Torà, come è detto: una mitzvà è un lume e Torà è la luce”. Ne consegue che le luci dello Shabbat, del Beit Hamikdash e di Hanukkah rappresentano la Torà. Ci sono comunque differenze nella Torà stessa, relative a questi tre tipi di luce.

Uno può apprendere la Torà per sapere la Halahà, come per fare le mitzvot. Questa è l’idea della Torà che porta la pace nel mondo. Corrisponde alle luci dello Shabbat che hanno lo scopo di assicurare la pace nella casa.

Poi c’è lo studio della Torà attraverso il quale un Ebreo si lega a D-o. Corrisponde alle luci del Beit-Hamikdash che testimoniano che la Shehinà risieda in Israele.

Finalmente, c’è il livello più elevato dello studio della Torà – la Torà studiata per il proprio valore. Questa Torà è unita alla vera essenza di D-o e l’essenza di D-o vive solo di per se stessa. E questo corrisponde all’illuminazione di Hanukkah che non ha scopo se non se stessa.

Questo è perché “a noi non è permesso far uso delle luci di Hanukkah”. Il nostro rifiuto di utilizzare l’illuminazione prodotta dalle luci della Menorà dimostra che il nostro servizio a D-o deve essere fine a se stesso, non per alcun beneficio o ricompensa possa occorrere.

La commemorazione principale di Hanukkah come spiegato sopra, avviene attraverso le luci di Hanukkah. Ci sono diversi elementi ad esse associati, ciascuno dei quali procura lezioni per il servizio di D-o.

Tutte le mitzvot sono paragonate alla luce: “Una mitzvà è un lume e la Torà la luce”. Accendere i lumi di Hanukkah comunque, è una mitzvà letteralmente associata con la luce, e come spiegato sopra, il suo scopo risiede nell’illuminazione.

La luce non ha limiti intrinsechi nell’ampiezza di potere d’illuminazione. Si può porre una barriera per trattenere la sua illuminazione; ma per se stessa può viaggiare all’infinito.

La Torà e le mitzvot che osserviamo, la luce spirituale che emaniamo nel mondo, deve avere le stesse caratteristiche della luce fisica. Un Ebreo non può costringere il suo servizio di D-o, entro limiti specifici. Un Ebreo deve servire D-o “con tutte le tue forze”. E questo è simboleggiato specificamente dalle luci di Hanukkah: esse commemorano il miracolo che risultò dalla mesirut nefesh degli Ebrei.

Nonostante il servizio di D-o possa essere completo, le luci di Hanukkah ci insegnano un’altra lezione ancora: si deve costantemente fare meglio. Il Talmud afferma che ci sono tre livelli nella mitzvà dell’accensione delle luci di Hanukkah: secondo la stretta Halahà; secondo coloro che sono mehader (desiderano abbellire la mitzvà) e secondo coloro che sono mehadrin min hamehadrin (desiderano farla nel modo più pio, il miglior modo possibile). Coloro che sono mehadrin min hamehadrin, il Talmud riporta, aggiungono una luce in più ogni notte.

La lezione è chiara: nonostante la mitzvà della notte precedente fu fatta nel miglior modo possibile, la notte dopo deve vedere un miglioramento – con un’altra luce ancora. Nonostante si osservi la Torà e le mitzvot più che adeguatamente – anche “con tutte le tue forze” – ci si deve sempre elevare più in alto.

Più che altro, che nessuno pensi che questa sia una lezione solo per il più pio. Il Ramah, le cui decisioni noi seguiamo, scrive che a differenza dei tempi del Talmud è una pratica universale osservare la mitzvà delle luci di Hanukkah alla maniera di mehadrin mm hamehadrin. Ci deve essere una continua ascesa progressiva al servizio di D-o.

Nonostante ci si possa continuamente elevare nel servizio di D-o, ciò non è mai sufficiente. Ecco perché le luci di Hanukkah devono essere accese all’entrata della propria casa sull’esterno. Un Ebreo non può accontentarsi che lui personalmente sia illuminato dalla luce della Torà e delle mitzvot. Deve anche illuminare la sua intera casa per assicurarsi che tutti i membri della sua famiglia siano osservanti come lui. Ancor più, le luci di Hanukkah sono poste all’entrata di casa sull’esterno, così che procurino illuminazione anche a chi si trova “fuori” del giudaismo. Un ebreo deve raggiungere gli estranei alla propria fede e portarli vicino alla Torà e alle mitzvot.

Ma ancora, si può e si deve andare oltre. Il lasso di tempo in cui le luci di Hanukkah devono durare è fino a che “i piedi dei Tarmudoi sono cessati”. I Tarmudoi erano venditori ambulanti che erano gli ultimi ad andarsene dalle strade. “Fino a che i piedi dei Tarmudoi sono cessati” significa allora che le luci di Hanukkah devono rimanere accese almeno fino a quando questi venditori percorrono le strade.

C’è un significato più profondo di ciò. Le lettere della parola “Tarmudoi” possono essere arrangiate per scandire la parola “moredes” che significa “ribelle”. Non è abbastanza raggiungere coloro che sono ignoranti nella fede. Dobbiamo anche cercare quelli che sono attivamente ribelli.

Ancor più, la parola “cessato” in ebraico – “kaliaya” è etimologicamente connessa con la parola “kilayon”, che significa “intensa brama di unirsi con D-o”. Il nostro compito non è semplicemente di portare i nostri fratelli ribelli vicino al giudaismo, ma impiantare in loro un desiderio ardente di giudaismo. E come tutte le cose nel giudaismo, questo ardente desiderio deve essere tradotto in azione: “i piedi dei Tarmudoi”, sono piedi simboleggianti azione, fatti. Questo desiderio di essere vicino a D-o non deve essere confinato al proprio cuore e alla propria mente ma deve permeare ogni fibra dell’essere ebreo: anche i “piedi”, la parte più bassa dell’uomo.

Tratto da un discorso pubblico del Lubavitcher Rebbe Shlita

http://digilander.libero.it/parasha/varie/librohanuka/indice.htm

 

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