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Riportiamo dal [b]CORRIERE della SERA [/b]di ieri, 11/11/2010, in prima pagina, l'editoriale di Angelo Panebianco dal titolo "Cristiani invisibili ". Da [b]LIBERO[/b], a pag. 18, l'articolo di Andrea Morigi dal titolo " Bombe e mortai contro i cristiani iracheni ". Dal [b]GIORNALE[/b], a pag. 12, l'articolo di Gian Micalessin dal titolo " E Obama tace: dell'Irak gli importa poco ", l'articolo di Luigi Guelpa dal titolo " Minacce di morte ai calciatori cattolici: la squadra di Mosul si ritira dal campionato".

Angelo Panebianco

Dopo l’attacco di gruppi riconducibili ad Al Qaeda contro una chiesa di Bagdad che provocò cinquanta morti e un centinaio di feriti il 31 ottobre scorso, una nuova ondata di attentati ha preso di mira, questa volta, le case abitate da cristiani: il bilancio provvisorio, probabilmente destinato a salire, è di almeno tre morti e decine di feriti. In Iraq è caccia aperta ai cristiani e, come dice monsignor Matoka, arcivescovo siro-cattolico di Bagdad, «il governo non fa nulla per fermare gli attentati». È facile, per gli occidentali, liquidare la questione come una delle tante tragiche conseguenze della guerra in Iraq. C’è del vero ma è anche una spiegazione insufficiente. Così come è insufficiente rilevare che ciò che sta accadendo è anche la conseguenza della forse prematura scelta americana di dichiarare chiusa la guerra in Iraq e di ritirare il grosso delle truppe. Un ritiro che ha lasciato l’Iraq in balia dei piani egemonici iraniani e sta vanificando il lavoro svolto, a suo tempo, dal generale David Petraeus: la guerriglia sunnita è ora in forte ripresa così come l’attivismo di Al Qaeda. I cristiani, inermi e quindi facili bersagli, sono vittime in uno scontro di potere fra gruppi islamici.

Ciò che così non si spiega, però, è perché i cristiani siano continuamente oggetto di attentati in una fascia che va dall’Indonesia all’India, dal Pakistan al Vicino Oriente e che si spinge fino ai territori islamici dell’Africa subsahariana. Le cifre sulla persecuzione dei cristiani nel mondo sono impressionanti. Ogni singolo caso ha certamente anche motivazioni «locali», è anche un portato di condizioni locali. Ciò è vero per definizione. Ma cosa lega la persecuzione dei cristiani nel mondo extraocci-dentale, quale è il denominatore comune?

Normalmente, chi nega l’esistenza di qualsiasi cosa possa anche solo ricordare vagamente l’espressione «scontro di civiltà» non ha risposte da dare. Il denominatore comune, infatti, c’è: consiste nel fatto che le comunità cristiane, anche se composte da pachistani, iraniani, nigeriani, o anche se, come nel caso delle comunità del Medio Oriente, lì già presenti molti secoli prima che arrivasse l’Islam, vengono associate dai loro nemici al mondo occidentale, ne sono considerate quinte colonne. Uccidere cristiani, anche là dove essi hanno solo la religione in comune con gli occidentali, ha un grande valore simbolico: elimina una presenza «impura», la spazza via dai territori che agli occhi di chi uccide, e dei tanti che applaudono alle uccisioni, appartengono di diritto ai praticanti di un’altra religione e, contemporaneamente, sferra un altro colpo agli odiati occidentali.

Gli occidentali, però, fanno finta di niente, fingono di non vedere e non capire. La persecuzione dei cristiani non è un tema che sia mai davvero entrato nelle agende dei governi occidentali di Stati Uniti e Europa, sembra non riguardarli. Con tutto ciò che succede nel mondo, paiono pensare governi e opi ni oni pubbliche, perché dovremmo preoccuparci anche delle disgrazie dei cristiani non occidentali? Invece, dovremmo preoccuparcene. Il nostro sostanziale disinteresse serve a un bel po’ di fanatici in giro per il mondo anche per prenderci le misure, per giudicarci. Ciò che vedono può indurli a pensare che siamo deboli e decadenti e che non c’è pertanto alcun motivo di fermare la mattanza.

LIBERO – Andrea Morigi : " Bombe e mortai contro i cristiani iracheni "

Quando AlQaeda cala il secondo colpo mortale sui cristiani iracheni, l’attività delle diplomazie dimostra tutta la sua inadeguatezza di fronte al terrorismo islamico. All’alba di ieri, almeno sei persone sono state uccise e altre trentatré sono rimaste ferite in un attacco simultaneo di granate e colpi di mortaio contro le loro abitazioni in varie zone di Bagdad. Continuano la strage iniziata nella cattedrale di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso, sempre nella capitale irachena, dove il 31 ottobre furono massacrati 50 fedeli. L’8 novembre altri due cristiani erano stati uccisi davanti alle loro case. E i terroristi procederanno così, visto che le truppe degli “in – vasori stranieri” hanno lasciato loro campo libero. Se il territorio è alla mercè dei piùviolenti, su manifestanti pacifisti, su una porzione significativa di preti, intellettuali e movimenti cattolici, oltre che sulle autorità di governo di numerosi Paesi occidentali, pesa una parte della responsabilità della tragedia in corso ai danni degli innocenti. Al Qaeda, almeno, non può essere accusata di ambiguità: «Tutti i centri, dirigenti, organizzazioni, istituzioni e fedeli cristiani sono bersagli legittimi per i mujaheddin », avevano detto dieci giorni fa in un comunicato, firmato dallo Stato islamico in Iraq, ramo iracheno della centrale del terrore. Di fronte, i terroristi si trovano istituzioni democratiche deboli. Il governo è in via di formazione da otto mesi, cioè dalla data delle elezioni di otto mesi fa. Il favorito sembra il premier uscente Nuri al Maliki, che attende una riconferma per oggi da parte del Parlamento. Nel frattempo, è il «terrore che bussa alle nostre porte» lamenta monsignor Atanase Matti Shaba Matoka, arcivescovo siro-cattolico di Baghdad, dove «le famiglie sono sconvolte. Tutti vogliono fuggire». Chi ha potuto lo ha già fatto, lasciando casa e averi dietro di sé, inunesodoche haprovocato un calo del 50% dell’unica popolazione cristiana – i caldei – che parla ancora l’aramaico, la lingua di Gesù Cristo. Negli anni '90 erano un milione, sono scesi a meno della metà. Nella capitale, da 450mila sono scesi a 150mila. Chi non è espatriato completamente, è finito però nella cosiddetta “en – clave di Ninive”, 55 chilometri quadrati di ghetto in territorio curdo, dove per ora la sopravvivenza sembra assicurata, benché al costo dell’esilio. Alle cause, nessuno sa come porre rimedio. Se la Santa Sede esprime riconoscenza al governo francese e a quello italiano che hanno messo a disposizione mezzi per trasportare da Baghdad i feriti gravi e curarli, la Farnesina nonpuò fare altro checondannare «fortemente» quanto accaduto nelle ultime ore, esprimendo al tempo stesso «forte preoccupazione per la situazione dei cristiani in Iraq». Il ministro degli Esteri Franco Frattini si è anche detto disponibile a curare in Italia una trentina di cristiani iracheni rimasti gravemente feriti nell'attentato del mese scorso. In programma, c’è anche una sua visita a Baghdad, forse entro la prima decade di dicembre. Sarà l’occasione per affrontare temi come la tutela delle minoranze cristiane e la pena di morte. Di certo non si potrà dare, armi in pugno, la caccia ai terroristi. Sarebbe l’unica azione efficace, ma il Vaticano, con il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone ha esortato più volte il governo di Baghdad a prendere misure per proteggere al meglio i cristiani, come ha ricordato ancora il cardinal Bertone, affermando che si tratta di «un problema che abbiamo già discusso con autorità irachene e che speriamo venga preso in seria considerazione».

Il GIORNALE – Gian Micalessin : " E Obama tace: dell'Irak gli importa poco "

Incominciamo con le giustificazioni. l'Indonesia con i suoi 238 milioni di abitanti, l'86 per cento dei quali di fede musulmana, è la più grande nazione islamica del mondo. Ed è anche il Paese dove il bimbo Obama ha studiato ed è diventato grande. Quindi se la usa come podio per parlare ai musulmani, se ripete «Indonesia bagian dari didi saya», «l'Indonesia è una parte di me», lo si può capire. Ma le buone ragioni finiscono qua. Poco ore dopo il sermone di Giakarta in cui il presidente torna a tendere la mano ai musulmani il terrore islamico dissemina di bombe i quartieri cristiani di Bagdad uccidendo 6 persone. Nove giorni prima di quel nuovo appello presidenziale all'Islam Al Qaida aveva massacrato più di 50 fedeli nella chiesa di Nostra Signora del Perpetuo Soccorso. Eppure dal presidente Obama manco un fiato. Il silenzio assordante della Casa Bianca di fronte al nuovo pogrom cristiano è ancora più grave se si considera che alla vigilia delle presidenziali del 2008 l'Irak è un paese sostanzialmente stabilizzato. La strategia sviluppata dal generale David Petraeus e dall'amministrazione di George W. Bush garantisce l'alleanza delle tribù sunnite privando Al Qaida del suo tradizionale bacino di reclutamento. L'organizzazione a corto di risorse, priva di appoggi, decimata dalle forze speciali americane ed inglesi è sull'orlo dell'estinzione. Ma ad Obama l'Irak interessa poco. Il suo unico obbiettivo è andarsene in fretta. L'ha promesso in campagna elettorale e vuole dimostrare di rispettare le promesse. Per farlo non esita a buttare alle ortiche una guerra già vinta. Pur di riportare a casa le unità combattenti entro il 31 agosto Obama finge di non vedere la drammatica situazione del triangolo sunnita, dove tribù e milizie abbandonate a stesse tornano a regalar consensi ad Al Qaida. Pur di non rimandare di un solo giorno il ritiro – come gli consigliano dal Pentagono – accetta di lasciarsi alle spalle un Paese senza governo. Un Paese dove lyad Allawi, vincitore delle elezioni di marzo non hai numeri per formare un esecutivo. Un paese dove il premier Nouri Al Maliki non fa mistero di trattare con Moqtada Sadr, il capo miliziano sciita alleato di Teheran e nemico numero uno degli americani. In questo dissesto generalizzato i cristiani ritornano vasi di coccio trai vasi di ferro, diventano le prime vittime della fallimentare politica di Obama. Nella provincia setentrionale di Mosul dove la croce dell'apostolo Tommaso arrivò 2000 anni fa i cristiani vengono massacrati dentro le proprie case, costretti all'esodo in Siria o nei monasteri sulle montagne. Ma nessuno li difende. Di mezzo c'è anche l'irrisolta questione di Kirkuk. Per i curdi è la loro capitale storica. Per i sunniti le sue immense riserve petrolifere sono l' unica risorsa. Lasciare i cristiani in balia dei terroristi, approfittare del loro esodo per mettere le mani su terre e villaggi è un modo come un altro per allargare il controllo sulla regione. Risolvere la questione di Kirkukprima di abbandonare il Paese contribuirebbe a fermare la persecuzione. Ma anche in quel caso Obama non muove un dito. E continua a far finta di nulla a pochi giorni dal ritiro del 31 agosto quando Al Qaida tornaa colpire al cuore Bagdad dimostrando di essere nuovamente attiva, nuovamente pericolosa. Perla rinata Al Qaida la causa del-l'anti-cristianesimo è oggi linfavitale. Tenere sotto scacco una delle comunità più attive di Bagdad significa metterne all'asta case e proprietà, significa esporre i cristiani all'arbitrio del più forte, trasformare le loro abitazioni, le loro terre, le loro chiese in bottino da offrire a chiunaue torni ad anno.. giare la causa del fondamentali-smo e del terrore islamico. Questo ritorno all'incubo iracheno, questa nuova discesa all'inferno di Bagdad, questo riconsegna dei cristiani al patibolo della persecuzione sono i frutti dell'indifferenza, del cinismo e dell'inconsistenza della politica di Barack Obama. Per questo il presidente tace. Per questo volge gli occhi dal proprio disastro. Per questo finge una volta di più di non vedere.

Il GIORNALE – Luigi Guelpa : "Minacce di morte ai calciatori cattolici: la squadra di Mosul si ritira dal campionato "

Se sei cattolico non ti è concesso di giocare a pallone. Nell'inferno iracheno gli scontri tra le etnie si trasformano in religiosi e travolgono con furia inaudita anche lo sport. A farne le spese è il Mosul Football Club, squadra della città che sorge a 400 km a nord ovest di Bagdad e ultima roccaforte del cristianesimo nella regione islamica. A tre settimane dall'inizio del campionato la formazione in casacca verde ha dato forfait. Le continue minacce di morte nei confronti di due calciatori cattolici hanno indotto la dirigenza a prendere una prolungata pausa di riflessione.
A Mosul temono che possa scorrere altro sangue come sta accadendo da giorni nella comunità caldea di Bagdad. «Non ci sono le condizioni per disputare le partite. Anche le trasferte potrebbero nascondere insidie. Metà delle squadre iscritte alla prima divisione sono di Bagdad, dove in questo momento la situazione è intollerabile. Per molto meno in passato è accaduto di peggio nei nostri stadi». Non si nasconde certo dietro a un dito l'allenatore Mohammed Fathi. Teme per l'incolumità dei suoi ragazzi. Soprattutto per Qussay Ayid e Yassir Eidan, convertiti al cristianesimo e battezzati dal vescovo Emil Shimoun Nona. I precedenti sono tutt'altro che rasserenanti: esattamente sei mesi fa due diversi attentati contro autobus che portavano studenti cristiani alla locale università Al Shifaa provocarono la morte di un ragazzo e il ferimento di altri ottanta.
L'enclave cattolica di Mosul è la più popolosa dell'Irak con circa 25mila battezzati su una popolazione di circa 2 milioni. C'è una cattedrale dedicata a San Paolo, dove i calciatori hanno ricevuto il sacramento, e altre dieci parrocchie. Padre Emil, che ritiene «vile il ricatto nei confronti della squadra», è stato ordinato arcivescovo il 5 maggio del 2009 dopo il barbaro assassinio del suo predecessore Paulos Faraj Rahho. Il calcio sembrava una sorta di isola felice, ma Al Qaeda non ha affatto intenzione di fermarsi di fronte alla sana passione sportiva. I mujaheddin considerano lo stadio «rifugio osceno del sionismo» e i calciatori «nemici dell'Islam».
Qussay Ayid e Yassir Eidan stanno valutando la possibilità di rifugiarsi all'estero. Secondo la stampa locale si starebbero accordando con un club della serie cadetta svedese. Si tratta dell'Ik Sirius di Uppsala, lo stesso nel quale per un breve periodo militò anche il portiere della nazionale irachena Noor Sabri. Anche lui allontanatosi da Baghdad per reiterate minacce di morte per via delle sue origini sciite.
La vicenda dei due giovani attaccanti ricorda quella vissuta nel confinante Iran dal difensore nigeriano Taribo West (ex di Inter e Milan). Dopo aver firmato nell'estate del 2007 un contratto con il Paykan di Teheran, fu costretto a lasciare il Paese perché gli estremisti mal tolleravano che si portasse appresso la Bibbia dopo la sua conversione al movimento pentecostale.

 

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