Su ILSOLE24ORE, il Domenicale, e sul GIORNALE, ieri 03/10/2010,due servizi su [b]Irène Nemirovsky[/b].
Dalla grande mostra a Parigi al Mémorial del la Shoah all'interviséa con la figlia Denise.

In mostra al [b]Mémorial de la Shoah (Parigi) [/b]foto e carte inedite appartenute alla Némirovsky

Come se il disordine e la mano che sceglie a caso potessero restituire a quelle fotografie un fremito di vita. Denise Epstein, ancora oggi, conserva le immagini che le sono rimaste di sua madre, la scrittrice Irène Némirovsky, di suo padre, Michel Epstein, di sua sorella Élisabeth e dei giorni felici trascorsi insieme, in una scatola di cartone. Avesse voluto incollarle su un album, avrebbe rivisto e rivissuto, nelle poche pagine dello sfoglio, la tragedia di una vita che si è chiusa improvvisamente il 13 luglio 1942, quando i gendarmi di Issy-l'Évêque arrestarono sua madre e poche settimane dopo suo padre.

L'ultima fotografia che li sorprende tutti e quattro insieme, sorridenti, con Irène e Michel che si fanno piccoli, non più alti di Denise, tredicenne accanto alla sorellina, risale all'estate del 1939, a Hendaye, sul mare dei Paesi Baschi. La prima immagine spaventosa che la macchina fotografica non coglie, ma che gli occhi di Denise registrano per sempre, è il volto impietrito dei genitori la mattina dell'arresto, la madre che l'abbraccia e le dice che sta partendo per un viaggio, e poi il padre che sparisce anche lui ad Auschwitz, non prima di aver affidato alla figlia una valigia. Quella valigia da cui sessantadue anni dopo uscirà, accanto alle prime fotografie, il manoscritto di Suite francese. Ma sono dovuti passare ancora sei anni, con l'intera opera della Némirovsky ridata alle stampe, in Italia da Adelphi, perché i suoi lettori potessero riscoprire pienamente il volto, la scrittura e la voce, grazie ad alcune rarissime registrazioni sonore, di una delle più amate scrittrici del Novecento. Tocca infatti alla splendida mostra «Irène Némirovsky. Il me semble parfois que je suis étrangère», aperta al Mémorial de la Shoah, a Parigi, dal 13 ottobre all'8 marzo, ricostruire la vita di questa figura straordinaria, attraverso un'amplissima selezione di immagini inedite, che pubblichiamo in anteprima, manoscritti, appunti, prime edizioni, lettere, interviste, e persino alcuni documenti ufficiali. Tra questi, mai pubblicata, appare la carta di circolazione temporanea di Irène, concessa nel 1939, perché l'autrice potesse recarsi da Parigi a Issy-l'Évêque per «voir ses enfants évacués» come recita la voce «Motif du déplacement». L'immagine allegata la ritrae di profilo, la bocca carnosa appena socchiusa, lo sguardo ancora sicuro. Un anno dopo, a Francia invasa, la fotografia segnaletica, in occasione del censimento della popolazione ebraica, voluto dal governo di Vichy, sorprende una donna già diversa, invecchiata, il sorriso spento, straniera ed estranea al paese che l'aveva accolta, e poi tradita, come recita il titolo della mostra. Nelle immagini si vede già tutto e «le immagini, infatti, occupano un posto vitale nell'arte della Némirovsky, perché anticipano la sua scrittura – spiega Olivier Philipponnat, curatore della mostra e del catalogo Un destin en images, quindi coautore della magnifica biografia La vita di Irène Némirovsky, edita da Adelphi – Prendiamo il romanzo Le Vin de solitude, «un'autobiografia nascosta» come la definisce l'autrice. Tutto, in queste pagine, a parte i nomi, è vero, e le fotografie illuminano ogni dettaglio: il vestito che Irène portava da bambina, il ritratto di sua nonna «con un viso scialbo come una vecchia fotografia», o ancora quella foto incredibile dove si vedono i suoi genitori e l'amante della madre, seduti allo stesso tavolo, esattamente come nell'ultima parte del libro. E che dire del ritratto sempre di sua madre in abito da sera, che pare un'eco alle parole de L'Ennemie, del 1928, quando la Némirovsky scrive: «Mammina in un abito da ballo, le spalle nude, con in faccia un sorriso candido e trionfante che sembrava dire: guardatemi, sono o non sono bella?». È chiaro che per una descrizione simile, Irène aveva sotto gli occhi proprio la stessa fotografia. Solo così possiamo comprendere cosa volesse dire questa meravigliosa scrittrice quando dichiarava: «Io penso per immagini». La fotografia non mente. «Basta vedere mia madre bambina accanto a sua madre e suo padre, due mondi diversi – ricorda con emozione Denise Epstein, ottant'anni, nella sua casa di Tolosa – Mia madre aveva una bella complicità con suo padre, lo abbracciava, c'era contatto, calore, tenerezza. Verso sua madre, invece, provava un odio profondo, ricambiato, e un'assoluta repulsione fisica: faceva di tutto per non toccarla». A volte a separare definitivamente i destini è un colpo di forbice. «In Russia, nella parte moscovita della nostra famiglia, ho ritrovato un'immagine di mia madre, ragazzina, che camminava felice sulla Promenade des Anglais, a Nizza. Aveva inviato questo scatto alla zia Victoria, sua coetanea. Ma era solo un pezzo della foto, perché l'altra metà, conservata in Francia, dove si vede Anna Némirovsky, detta Fanny, sua madre, era stata tagliata». Secondo il romanziere Aharon Appelfeld esistono due categorie di sopravvissuti: quelli che hanno le fotografie e quelli che non ne hanno. Denise appartiene al primo gruppo. Per anni non ha avuto la forza di aprire l'ultimo quaderno della madre, come se la sua scrittura finissima, in quella sfumatura d'inchiostro squillante, «azzurro Mari del Sud», fosse troppo "autografa", troppo viva, da sopportare. Dalle fotografie, invece, non si è mai voluta separare, «e anch'esse si sono salvate miracolosamente come noi – ricorda la Epstein – Alcune ci hanno seguito nella famosa valigia, altre erano state nascoste dalla nostra tutrice e le ho recuperate dopo la guerra, altre ancora le abbiamo ritrovate in Russia. Ogni immagine parla, e sul volto di mia madre vedo passare gli anni dell' infanzia in Ucraina, le vacanze d'estate sulla Costa Azzurra, poi la violenza della rivoluzione, la fuga in Finlandia, l'esilio e l'arrivo a Parigi. Vedo lei, studentessa della Sorbona, nei suoi anni folli e nei suoi abiti eleganti, e poi la vedo felice accanto a mio padre, un uomo gioioso, innamoratissimo di sua moglie, il suo primo lettore, il suo primo correttore e lui l'ha sempre lasciata libera, senza mai ostacolarla né pesarle in nessuno modo. E infine vedo mia madre con noi bambine, tenerissima, radiosa, che ci tiene vicine, e ci vuole un enorme coraggio ed intelligenza per non ripetere gli errori e gli orrori commessi dai propri genitori. Nel romanzo Le Vin de solitude mia madre scrive: «È un delitto mettere al mondo dei figli e non dare loro un briciolo, un atomo d'amore! Ecco, queste immagini mi aiutano ancora oggi e mi ricordano che abbiamo avuto momenti belli, prima della catastrofe, prima che una sera mi addormentassi con un padre e una madre e a colazione scoprissi di non avere più nessuno». A mille chilometri di distanza, in Germania, forse lo stesso giorno, un'altra famiglia si riuniva intorno a un tavolo per salutare un padre che partiva in guerra. Un abbraccio, un bacio. Nell'ottobre del 1942, anche Denise ed Élisabeth vengono arrestate. Ad aspettarle nel Kommandantur c'è un ufficiale tedesco. Il militare le guarda e ad un tratto estrae dal portafoglio la foto di una ragazzina, sua figlia, anche lei bionda, stessa età, come Denise. Forse l'uomo sapeva a che cosa andavano incontro le due prigioniere e forse pensando a chi lo aspettava a casa le ha lasciate libere. Per la prima di infinite e dolorosissime altre volte, Denise è stata salvata da una fotografia.

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