[b]AVRAHAM B. YEHOSHUA
La Stampa 1/7/2010[/b]

Tra le varie argomentazioni di chi si oppone ai termini della trattativa per la liberazione di Gilad Shalit ce n'è probabilmente solo una che abbia un qualche valore morale. Tale argomentazione non ha nulla a che vedere con l'immagine di forza che vuol dare di sé Israele, dal momento che dopo ogni guerra è già accaduto che lo Stato ebraico abbia rilasciato centinaia se non migliaia di prigionieri nemici in cambio di pochi ostaggi israeliani e quegli scambi a mio parere hanno solo rafforzato la sua dignità e il suo valore agli occhi dei suoi cittadini e di altri.

Tale argomentazione non è nemmeno inerente al consolidamento del prestigio di Hamas. La sconfitta di questa organizzazione durante l'operazione «Piombo fuso» getterebbe infatti un'ombra sul prestigio che la sua leadership deriverebbe da uno scambio di prigionieri. Inoltre la salda posizione dell'Autorità palestinese, che già da diversi anni riesce a garantire stabilità e ordine interno ai territori sotto il suo controllo e a sviluppare una solida infrastruttura economica, si basa su contingenze ideologiche e politiche inerenti alla vita e agli interessi palestinesi e non crollerà se qualche centinaio di terroristi di Hamas che hanno trascorso alcuni anni nelle prigioni israeliane verranno liberati.

Se Israele vorrà avere dei colloqui di pace diretti con l'Autorità palestinese lo farà sapendo che esiste una base affidabile sulla quale sarà possibile arrivare ad un accordo su «due Stati per due popoli», come il nostro primo ministro, a suo dire, si augura. L'unica possibile argomentazione morale valida contro la liberazione di Gilad Shalit è legata al fatto che, in base all'esperienza passata, alcuni dei prigionieri liberati potrebbero tornare a commettere atti terroristici e perciò non sarebbe giusto liberare un unico soldato in cambio della possibile perdita della vita di molti altri israeliani.

Ma nella situazione attuale un'eventuale nuova ondata di attentati in seguito alla liberazione di Shalit non è poi così plausibile. Le amare esperienze del caso di Ahmed Jibril (in cui furono rilasciati 1150 prigionieri palestinesi in cambio della liberazione di tre soldati israeliani) e del caso Goldwasser-Regev (dopo la seconda guerra del Libano) avvennero prima del ritiro dalla striscia di Gaza. Ora una parte dei prigionieri liberati tornerà a Gaza, dove il danno che potrebbero arrecare a Israele sarebbe limitato, mentre quelli che faranno ritorno in Cisgiordania dovranno confrontarsi con l'efficace collaborazione tra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi che certamente potrebbero controllare le loro mosse.

Tuttavia, e sarebbe impossibile ignorare questa ipotesi, c'è comunque il rischio che una parte dei prigionieri liberati possa cercare di commettere attentati ed è questa a mio parere l'unica argomentazione morale contro la liberazione di Gilad Shalit.

Vorrei controbattere a questa argomentazione riportando alla memoria l'operazione di Entebbe, della quale tutti gli israeliani vanno fieri ancora oggi. Per liberare dei passeggeri di un volo dirottato, in mano a un'organizzazione terroristica da meno di due settimane e per i quali esisteva una plausibile possibilità che fossero rilasciati in seguito a una negoziato mediato da organismi internazionali, Israele era pronto a rischiare (e di fatto lo fece) la vita di molti di loro e dei suoi soldati. Tre israeliani, tra cui due civili e un ufficiale dell'esercito (Yonatan Netanyahu), rimasero uccisi nel corso di quella azzardata operazione che solo per miracolo non finì in maniera ancora più tragica.

Ma un rischio tanto grande viene ancora oggi guardato, e a ragione secondo me, come un atto eroico e di ardimento morale. Se quindi Israele non esitò a porre in pericolo la vita di molti suoi cittadini per ottenere la loro liberazione non c'è nessun motivo per cui, in una situazione in cui non esiste alcun margine di intervento di tipo militare, non si assuma il rischio (al momento puramente teorico) di liberare il soldato Gilad Shalit, tenuto in ostaggio da quattro anni e che se non sarà liberato potrebbe pagare con la vita.

 

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