[b]Dopo il caso della Freedom Flotilla
di Victor Davis Hanson17 Giugno 2010
L'Occidentale[/b]

Dichiarando che l’intervento israeliano contro la Freedom Flotilla ricorda lo stile di al-Qaeda, il presidente turco Abdullah Gul si è reso vittima di uno spiacevole lapsus freudiano, dal momento che l’architetto dello scontro pianificato – l’organizzazione turca IHH – è stato spesso segnalato dall’Intelligence americana, europea e israeliana come un gruppo legato al terrorismo, e con occasionali contatti proprio con il network di Bin Laden. Quindi sì, presidente Gul, in un certo senso l’intero incidente ricorda al-Qaeda: e una volta ci pensava anche il governo turco, quando – nel corso degli anni Novanta – faceva regolarmente irruzione nelle sedi dell’IHH, e in certi casi proibiva parte delle sue attività.

Oggi si pensa che i Neocon e i sostenitori di Israele reclamino un distacco dalla Turchia. Ma l’incidente della Freedom Flotilla non è una novità, quanto piuttosto parte di una decennale trasformazione che ha riportato Ankara a un passato ottomano oggi molto idealizzato, a un tempo in cui la resistenza islamica contro l’Occidente veniva stimolata in modo più chiaro e sofisticato. In questa storia in stile imperiale, un mondo islamico unito sotto gli auspici della Turchia cercò di dividere l’Occidente, di importare la sua tecnologia e la sua competenza, e di unire diverse branche dell’Islam incrociando confini settari ed etnici. E questo ruolo della Turchia ha poco a che fare col fatto che Clinton, Bush o Obama sono diventati presidenti.
I nostri strateghi militari e gli esperti del Dipartimento di Stato possono continuare a parlare dell’antica partnership con la Turchia, e di relazioni strategiche rimaste immutate, ma sarebbe saggio cominciare a preparare dei piani di riserva per ogni situazione immaginabile: da un ritiro delle forze americane dalla Turchia a una pressione turca sul Kurdistan e la Grecia, da nuovi problemi a Cipro a ulteriori incidenti navali tra Ankara e Israele, da un riesame delle vendite di armi a una rivalutazione dei membri della Nato.
Oggi la Turchia sta soppesando svantaggi – la contrarietà americana al nuovo “ottomanesimo” – e vantaggi – adulazione nel mondo musulmano – della sua nuova posizione, giostrandosi tra il neutralismo di Obama, la crisi finanziaria occidentale, le ambizioni nucleari di Siria e Iran, e il nostro impegno in Afghanistan e Iraq. Finora ha concluso che è meglio essere neutrali nei confronti dell’America, o avversari, piuttosto che suoi alleati nella Nato. Ancora una volta si tratta di una valutazione empirica, non ideologica, al di là di quanto spiacevoli possano essere le conseguenze: ed ecco perché dovremmo impostare una politica estera bipartisan nella regione.

Tratto dal The Corner – National Review
Traduzione di Luca Meneghel

 

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