[b]Alessandro Litta Modignani[/b]

Casualmente, accettando l’invito di un’amica, ho assistito qualche giorno fa al Teatro India di Roma allo spettacolo “Ritorno a Haifa”, tratto da un testo del 1969 di Ghassan Kanafani. Costui viene presentato nella locandina come “uno dei più grandi esponenti della letteratura araba contemporanea. Scomparso nel 1972, ha sempre affiancato la sua attività artisitica e letteraria alla militanza politica.

Fu il primo a parlare di letteratura della resistenza…” eccetera. Ancora più soave la presentazione dello spettacolo: “Per la prima volta nella letteratura araba uno scrittore palestinese ci parla di due diaspore: quella palestinese e quella ebraica, accomunate da un unico tragico destino. Said, palestinese di Haifa, dopo vent’anni di eslilio torna con la moglie nella città natale, per rivedere la sua casa ora abitata da una famiglia di ebrei polacchi scampati ad Auschwitz e per cercare il figlio abbandonato molti anni prima durante la tragica fuga…..”.
Insomma, detto così, zucchero, miele e melassa a gogò. Peccato però che questa presentazione sia assolutamente ipocrita e nasconda una realtà completamente diversa. Al momento della rappresentazione, si assiste a uno spettacolo impregnato di un odio totale, radicale, insormontabile e irriducibile. Odio verso Israele, nato dall’aggressione e dalla violenza contro i palestinesi inermi e indifesi; odio verso gli ebrei, che si vantano sempre di essere i migliori e i più forti, che giustificano il loro operato con le ingiustizie patite, che traggono legittimazione dal solo fatto di essere vincitori, che disprezzano gli arabi perché sconfitti e fuggiti. Tutto il testo scorre così, in un crescendo acre, sordo e cieco, fino all’appello finale alla lotta armata, alla guerra, a sacrificarsi per la terra e la patria fino al martirio. Benzina sul fuoco, insomma. Le parole pace, dialogo, convivenza non vengono pronuciate neppure una sola volta, neppure incidentalmente. Per la verità, il testo – del ’69, come si è detto – non presenta neanche quei tipici riferimenti alla religione islamica e all’etica del kamikaze cui ci siamo tristemente abituati in tempi recenti. E il perché si scopre abbastanza facilmente.
Chi era in realtà Kanafani ? Nientemeno che il portavoce ufficiale del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) guidato dal famigerato George Habbash: l’ala sinistra dell’Olp, di ispirazione comunista, responsabile fra l’altro del sanguinoso attentato dell’aeroporto di Lod del 29 maggio ‘72, nel quale morirono 26 vittime (fonte non sospetta Wikipedia, la cosiddetta “enciclopedia libera”). In conseguenza di queste e altre responsabilità, Kanafani venne ucciso con un’autobomba a Beirut l’8 luglio di quello stesso anno, verosimilmente per mano dei servizi segreti israeliani.
Resta l’interrogativo sull’oculatissima cancellazione di tutto ciò dalla locandina del teatro, che presenta falsamente lo spettacolo come incentrato su “l’unico, tragico destino che accomuna ebrei e palestinesi”. Anche in questo caso la risposta è facile. Chi vive di contributi pubblici, indispensabili all’attività teatrale (per inciso: i due giovani attori sono bravissimi e questa è forse l’unica nota positiva dell’intera faccenda) ha tutto l’interesse a presentare la propria iniziativa “culturale” come finalizzata alla pace, al dialogo e alla convivenza, anche se è vero esattamente il contrario. E’ molto bello battersi per nobili ideali e lottare “contro tutti i muri”, ma onestà vorrebbe che si cominciasse abbattendo innanzitutto quel Muro dell’Odio che è la causa prima di sessantuno anni di guerra. Troppo comodo travestirsi da agnelli, incassare i contributi pubblici e poi prestare la propria arte alla propaganda dei lupi.

 

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