"Gli ebrei? Mai stati a Gerusalemme". Israele ora teme i negazionisti arabi
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[b]di Fiamma Nirenstein[/b]
Quando ieri mattina è risuonata sulla spianata del Muro del Pianto la benedizione dei Cohen che hanno levato alto il talled bianco e nero sopra le teste e gli occhi del popolo di Gerusalemme riuniti per la Festa dei Tabernacoli, Sukkot, Gerusalemme ha finalmente preso un lungo respiro dopo giorni di tensione.
Da poco più di dieci giorni, ovvero dalla festa di Kippur, tutta la zona est della città vecchia e dei quartieri arabi moderni che confinano con le sue mura, verso il Monte degli Ulivi, sotto la parte orientale della Spianata del Tempio, o Spianata delle Moschee, è stata tutta un lancio di pietre, di copertoni bruciati, fino all’attacco col pugnale di un giovane poliziotto. Le cariche della polizia contro gruppi di giovani si sono ripetute, con parecchi feriti sia fra loro che fra i poliziotti. Il fuoco religioso islamico di Gerusalemme è divampato di nuovo, le organizzazioni estremiste hanno chiamato a raccolta. Primo si era mosso il movimento politico islamista dello sceicco Ra’ed Tzalah: da settimane, fiancheggiate poi da tutti i gruppi palestinesi, avevano cominciato a mulinare il pericolo della distruzione delle Moschee, di una occupazione della Spianata: lo sceicco Azzam al Khatib, responsabile dell’ente che sovrintende ai siti islamici aveva detto che gli ebrei minacciavano un’azione di massa, poi via via molti altri esponenti islamici si sono uniti al coro. Così un gruppo di turisti francesi (cristiani) è stato preso a sassate, e Salam Fayyad, primo ministro dell’Autonomia Palestinese ha seguito la corrente del consenso ammonendo di una possibile «perdita di controllo» delle Moschee.
Quella che era un’emergenza di sicurezza si è fatta politica internazionale, e mentre il ministro degli Esteri giordano chiamava a rapporto l’ambasciatore israeliano e l’ineffabile Svezia esprimeva a Israele tutte le sue preoccupazioni filo islamiche, si ammucchiavano quei mucchi di grossi sassi che la polizia ha trovato pronti a volare dall’alto sulla folla al Muro del Pianto, se i facinorosi avessero potuto entrare. Le organizzazioni palestinesi hanno tutte protestato perché l’ingresso a Al Aqsa è stato limitato per qualche ora alle persone sopra i cinquant’anni, ma il capo della polizia nega che ci sia qualsivoglia intento di disturbare la libertà di culto: «Il problema è la volontà di creare scontri, come quelli che nacquero nell’ottobre 2000, l’inizio dell’Intifada». La guerra ideologica per il Monte del Tempio è fatale, ma non da sempre: moltissimi testi classici musulmani spiegano, come del resto sanno tutti gli archeologi, che le moschee sorgono sulle rovine del Tempio ebraico, meraviglioso e immenso, distrutto nel 70 dopo Cristo da Tito. Quando nel 67 Israele conquistò la Città Vecchia subito consegnò la spianata all’Waqf che l’ha gestita autonomamente; lo status quo è lo stesso dal ’67, nulla è mai stato toccato; salvo delimitate brevi visite mattutine e la sorveglianza al Muro del Pianto, tutto è nelle mani del mufti palestinese. Lo status quo però è stato attaccato alle radici da un’invenzione ideologica fantastica di Arafat, che al nono giorno del summit di Camp David del 2002 disse a Clinton che gli ebrei non erano mai stati a Gerusalemme, mai vi avevano costruito il loro santuario, che tutto là era sempre stato mussulmano. Clinton gli rispose durissimamente, dicendogli «Come cristiano sono convinto del contrario» e aggiungendo che se avesse ripetuto quelle menzogne avrebbe interrotto i colloqui. Era nata però una forma di negazionismo che alcuni definiscono peggiore di quella della Shoah, perché non solo nega ogni evidenza storica e le testimonianze di testi insospettabili, dalla Bibbia a Flavio Giuseppe, la getta discredito su duemila anni di identità tutta fondata nel rapporto con Gerusalemme, appunto dalla conclusione della guerra giudaica istoriata, quasi fotografata nel momento in cui gli ebrei sfilano con la lampada del Tempio nel trionfo dell’imperatore, sull’arco di Tito. Dal nuovo negazionismo di Arafat, tutti i suoi uomini, compreso Abu Mazen, hanno innestato una propaganda spietata contro l’esistenza dello Stato ebraico basata sul rifiuto del rapporto fra gli ebrei e Gerusalemme. Accendere una luce incandescente e negazionista su Gerusalemme è garanzia di consenso estremista e di emozioni capaci di scardinare ogni progetto di colloquio.
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