[b]di Daniel Pipes
Liberal
14 ottobre 2009[/b]

[b]Pezzo in lingua originale inglese: Peace Process or War Process?[/b]

Le dichiarazioni di Barack Obama in merito alla diplomazia israelo-palestinese: «Sono sicuro che con un po' di buona volontà quest'anno riusciremo a fare dei seri progressi» mostrano un toccante (seppur ingenuo) ottimismo. A dirla tutta, la sua determinazione ben si accorda all'inveterato schema perseguito dai politici per la risoluzione del conflitto: solo nel corso delle due amministrazioni di George W. Bush ci sono state 14 iniziative del governo americano. Stavolta potrebbe essere diverso? Verrà fatto ogni sforzo possibile o si riuscirà a porre fine al conflitto? La risposta è no. Non c'è alcuna probabilità di successo per questi tentativi. Senza entrare nei dettagli dell'approccio di Obama – che sono di per sé problematici – analizzerò tre tesi: che i passati negoziati israelo-palestinesi sono falliti; che il loro fallimento è dovuto all'illusione israeliana di evitare la guerra; e infine, che Washington dovrebbe spingere Gerusalemme a rinunciare ai negoziati e tornare piuttosto alla precedente e più proficua linea politica del combattere per vincere.

Le due mani del settembre 1993, quando Yitzhak Rabin e Yasser Arafat si strinsero la mano, sotto lo sguardo del presidente Clinton.
La prima tesi è: riconsiderare il "processo di pace". È imbarazzante richiamare alla mente l'euforia e le aspettative che accompagnarono la firma degli accordi di Oslo nel settembre 1993, quando il premier israeliano Yitzhak Rabin strinse la mano sul prato della Casa Bianca al leader palestinese,Yasser Arafat. Per anni, "La Stretta di Mano" (come fu in seguito scritta in lettere maiuscole) è stata simbolo di una brillante diplomazia, per mezzo della quale ogni parte ha conseguito ciò che maggiormente desiderava: dignità e autonomia per i palestinesi, riconoscimento e sicurezza per gli israeliani. Il presidente Clinton, padrone di casa, magnificò l'accordo, dicendo che si trattava di una «grossa occasione storica». Il segretario di Stato Warren Christopher concluse che «l'impossibile è a portata di mano». Yasser Arafat definì la firma «un evento storico, che ha inaugurato una nuova epoca». Il ministro degli Esteri israeliano Shimon Peres vi intravide «il profilo della pace in Medio Oriente». Anche i media mostrarono le stesse aspettative. Time elesse Arafat e Rabin i due "uomini dell'anno". Come ciò non bastasse, Arafat, Rabin e Peres vinsero assieme il Premio Nobel per la Pace nel 1994. Tuttavia, dal momento che gli accordi hanno portato a un deterioramento delle condizioni tanto per i palestinesi quanto per gli israeliani, piuttosto che arrecare i miglioramenti attesi, quelle entusiasmanti aspettative si sono rapidamente dissipate. Quando i palestinesi vivevano ancora sotto il controllo israeliano, prima degli accordi di Oslo, beneficiarono dello stato di diritto e di una crescente economia indipendente dagli aiuti finanziari internazionali. Avevano scuole (efficienti), alcuni atenei e ospedali; potevano spostarsi senza doversi fermare ai posti di controllo e potevano liberamente entrare in territorio israeliano. Il terrorismo, infine, era in forte calo dal momento che era aumentata l'accettazione dell'esistenza di Israele. A tirar le somme, Oslo non ha apportato ai palestinesi pace e prosperità, ma tirannia, mancanza di istituzioni, povertà, corruzione, un culto della morte, le industrie del suicidio, la radicalizzazione islamista. Yasser Arafat aveva promesso di costruire il suo nuovo impero in una Singapore del Medio Oriente, ma la realtà che si trovò a governare è divenuta un incubo di dipendenza, disumanità e odio, più simile alla Liberia o al Congo.

Quanto agli israeliani, essi vedevano infiammarsi la rabbia dei palestinesi, che infliggevano loro una violenza senza precedenti: nei cinque anni successivi agli accordi di Oslo sono stati uccisi dai palestinesi più israeliani di quanti ne siano stati ammazzati nei quindici anni precedenti. Se la stretta di mano tra Rabin e Arafat simboleggiava la speranza di Oslo, le due mani insanguinate di un giovane palestinese che aveva appena linciato dei riservisti israeliani a Ramallah, nell'ottobre 2000, hanno rappresentato la sua triste fine. Inoltre, Oslo ha arrecato un grosso danno alla posizione internazionale di Israele, risuscitando degli interrogativi in merito all'esistenza stessa di uno Stato ebraico sovrano (specie a sinistra) e generando distorsioni etiche come la Conferenza mondiale delle Nazioni Unite contro il razzismo. Dal punto di vista di Israele, i sette anni della diplomazia di Oslo, dal 1993 al 2000, hanno in gran parte annullato quarantacinque anni di successi in guerra. Palestinesi e israeliani concordano su poche cose, ma convengono pressoché all'unanimità sul fatto che gli accordi di Oslo sono stati fallimentari. Ciò che viene chiamato il "processo di pace" dovrebbe piuttosto essere definito "processo di guerra".

Le due mani dell'ottobre 2000, quando un giovane palestinese mostrava le sue mani insanguinate dopo aver linciato due riservisti israeliani.
E ora vediamo la seconda tesi: la (falsa) speranza di aggirare la guerra. Perché le cose sono andate di male in peggio? Dove stanno le pecche in un accordo così promettente? Fra i tanti errori, quello basilare risiede in un malinteso causato da Yitzhak Rabin sull'esito della guerra, come rivela il suo slogan: «Non si fa la pace con i propri amici. La si fa con il proprio nemico.» Il premier israeliano si aspettava che si ponesse fine alla guerra con la buona volontà, la conciliazione, la mediazione, la flessibilità, la moderazione, la generosità e il compromesso, il tutto coronato dall'apposizione di firme sui documenti ufficiali. In questo spirito, il suo governo e quelli dei suoi tre successori – Peres, Netanyahu, Barak – hanno dato il via a una serie di concessioni, sperando e aspettandosi che i palestinesi facessero altrettanto. Così non è stato. Le concessioni israeliane hanno infiammato l'ostilità dei palestinesi, convincendoli che i tentativi israeliani di "fare pace" altro non erano che segnali di demoralizzazione e debolezza. Le "dolorose concessioni" hanno ridotto la soggezione palestinese di Israele, fatto apparire vulnerabile lo Stato ebraico e suscitato sogni irredentisti di annientamento. Ogni negoziato israeliano figlio degli accordi di Oslo ha radicalizzato e mobilitato il corpo politico palestinese alla guerra. La fioca speranza del 1993 di eliminare Israele ha fatto proseliti. I sondaggi e i risultati elettorali degli ultimi anni rivelano che appena il 20 per cento di palestinesi accetta l'esistenza di uno Stato ebraico. L'errore di Rabin è stato semplice e madornale: non si può "fare pace con il proprio nemico", come egli pensava. Piuttosto, si può fare pace con il proprio ex-nemico. Perché la pace comporta quasi sempre che una parte sia sconfitta e rinunci ai suoi obiettivi. Le guerre non terminano con la buona volontà, ma con la vittoria. «Che [in guerra] il vostro maggiore obiettivo sia la vittoria», ha osservato Sun Tzu, antico stratega cinese. «La guerra è un atto di violenza per costringere il nemico a eseguire la nostra volontà», ha scritto il suo successore prussiano del XIX secolo, Karl von Clausewitz. Nel 1951, Douglas MacArthur ha rilevato che «nella guerra non c'è niente che possa sostituire la vittoria». Il progresso tecnologico non ha alterato questa intuizione. E le guerre terminano quando una parte rinuncia alla speranza, quando la sua volontà di combattere è annientata.

Dal 1948 arabi e israeliani perseguono obiettivi inalterati e opposti: i primi combattono per eliminare Israele e i secondi si battono per essere accettati dai loro vicini. Perché un conflitto termini, una parte deve perdere e l'altra deve vincere. O non ci sarà più uno Stato sionista o esso sarà accettato dai vicini. Questi sono gli unici due scenari per porre fine al conflitto. Tutto il resto è instabile ed è una premessa alla guerra. Gli arabi perseguono i loro obiettivi di guerra con pazienza, determinazione e fermezza; le eccezioni a questa regola (ad esempio i trattati di pace con Egitto e Giordania) sono state insignificanti a livello operativo perché non sono riuscite ad arginare l'ostilità all'esistenza di Israele. Per tutta risposta, dal 1948 al 1993, gli israeliani hanno mantenuto uno straordinario operato fatto di visione strategica e brillantezza tattica. Col tempo, tuttavia, mentre lo Stato ebraico è diventato un Paese prospero, gli israeliani si sono spazientiti al cospetto dell'umiliante, lento, noioso, amaro e costoso compito di convincere gli arabi ad accettare la loro esistenza politica. Ormai, sono pochi gli israeliani che considerano la vittoria come un obiettivo; quasi nessuna figura politica di spicco oggi reclama la vittoria in guerra.

La visione di Yitzhak Rabin che «Non si fa la pace con i propri amici. La si fa con il proprio nemico» ha principalmente sviato la diplomazia arabo-israeliana.
Al posto della vittoria, gli israeliani hanno sviluppato una fantasiosa gamma di approcci per affrontare il conflitto: Compromesso territoriale: Yitzhak Rabin (e il processo di Oslo). Sviluppo dell'economia palestinese: Shimon Peres (e il processo di Oslo). Unilateralismo (la costruzione di un muro, ritiro da Gaza): Ariel Sharon, Ehud Olmert e il Partito Kadima. Locazione dei terreni appartenenti alle città israeliane in Cisgiordania per 99 anni: Amir Peretz e il Partito Laburista. Incoraggiamento dei palestinesi a sviluppare un buon governo Natan Sharansky (e George W. Bush). Ritiro territoriale: la Sinistra israeliana. Privazione ai palestinesi sleali della cittadinanza israeliana: Avigdor Lieberman. Offrire la Giordania come Palestina: elementi della Destra israeliana. Espulsione dei palestinesi dai territori controllati da Israele: Meir Kahane. Sostanzialmente contraddittori e incompatibili come sono, tutti questi approcci mirano ad aggirare la guerra piuttosto che vincerla. Nessuno di essi si occupa della necessità di spezzare la volontà dei palestinesi di combattere. Proprio come i negoziati di Oslo sono falliti, prevedo che sarà così per ogni schema israeliano che eviti il duro lavoro di vincere. In poche parole, dal 1993 gli arabi cercano la vittoria, mentre gli israeliani cercano il compromesso. In questo spirito, gli israeliani hanno apertamente dichiarato quanto sia logorante per loro la guerra.

In breve, prima di diventare premier, Ehud Olmert ha asserito a nome dei suoi concittadini: «Siamo stanchi di combattere, siamo stanchi di essere coraggiosi, siamo stanchi di vincere e di sconfiggere i nostri nemici». Per poi proclamare, dopo la nomina a primo ministro: «La pace si raggiunge con le concessioni. Noi tutti lo sappiamo». Dichiarazioni disfattiste che hanno indotto Yoram Hazony (Shalem Centre) a definire gli israeliani «un popolo esausto, confuso e privo di direzione». Ma chi non vince è un perdente.

Per sopravvivere, gli israeliani devono tornare alla politica pre-1993 e riaffermare che Israele è forte, duro e stabile. Questo non sarà facile né repentino. A causa di passi falsi commessi da Oslo in poi (specie il ritiro unilaterale da Gaza e la guerra del Libano del 2006), i palestinesi vedono Israele forte a livello economico e militare, ma moralmente e politicamente debole. Nelle pungenti parole del leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, Israele «è più fragile di una ragnatela». Un simile disprezzo probabilmente necessita decenni di duro lavoro per cambiare. Non sarà bello: ma la disfatta in guerra implica generalmente che il perdente faccia l'esperienza della privazione, del fallimento e della disperazione. Detto questo, Israele gode di una chance: deve solamente dissuadere i palestinesi e non intere popolazioni arabe e musulmane. Marocchini, iraniani, malesi e altri prendono spunto dai palestinesi e col tempo seguiranno il loro esempio. Il principale nemico di Israele, quello che dovrà piegare, ha pressappoco la sua stessa dimensione demografica. Questo processo potrebbe essere visto attraverso un semplice prisma. Ogni sviluppo che incoraggia i palestinesi a pensare che possono eliminare Israele è negativo, tutto ciò che li incoraggia a rinunciare a quest'obiettivo è positivo. La disfatta dei palestinesi sarà riconoscibile quando, per un periodo prolungato e con totale coerenza, essi dimostreranno di aver accettato Israele. Ciò non significa amare Sion, ma accettarlo definitivamente: revisionando il sistema educativo per eliminare la demonizzazione degli ebrei, riconoscendo il legame fra ebrei e Gerusalemme e accettando delle normali relazioni commerciali, culturali e umane con gli israeliani. Le manovre diplomatiche palestinesi e le lettere all'editore sono ammissibili, ma la violenza non lo è. La pace che ne seguirà dovrà essere continua e duratura. Simbolicamente, si può concludere che i palestinesi avranno accettato Israele e che la guerra sarà terminata solo quando gli ebrei che risiedono a Hebron (in Cisgiordania) non avranno bisogno di più sicurezza rispetto agli arabi che vivono a Nazareth (in Israele). La terza analisi riguarda la politica americana. Come tutte le persone estranee al conflitto, gli americani si trovano di fronte a una dura scelta: approvare l'obiettivo palestinese di eliminare Israele oppure quello dello Stato ebraico di essere accettato dai propri vicini. Operare una scelta rende chiaro che non c'è scelta: la prima opzione è barbara, la seconda è civile. Nessuna persona per bene può appoggiare l'obiettivo genocida dei palestinesi di eliminare il loro vicino. In seguito alle scelte operate da ogni presidente americano a partire da Harry S. Truman e ad ogni risoluzione e voto del Congresso, il governo americano deve sostenere Israele nei suoi sforzi, affinché esso venga accettato. Questa non è soltanto un'ovvia scelta etica, ma la vittoria di Israele, ironia della sorte, sarebbe la migliore cosa che sia mai accaduta ai palestinesi. Convincerli a rinunciare ai loro sogni irredentisti li renderebbe liberi di concentrarsi sui loro affari politici, economici, sociali e culturali. È necessario che i palestinesi subiscano la dura prova della disfatta per diventare un popolo normale: un popolo i cui genitori smetteranno di festeggiare i loro figli che diventano dei terroristi suicidi.

Ehud Olmert che parla all'Israel Policy Forum nel giugno 2005, dove ha asserito a nome degli israeliani: «siamo stanchi di combattere, stanchi di essere coraggiosi, stanchi di vincere e di sconfiggerei nostri nemici».
Non esistono scorciatoie. Quest'analisi implica per il governo Usa un approccio radicalmente differente da quello attuale. Dal lato negativo, avvisa i palestinesi che avranno dei benefici solo dopo aver dato dimostrazione di aver accettato Israele. Fino ad allora, niente diplomazia, niente discussioni sullo status finale, niente riconoscimento come Stato e di certo nessun aiuto finanziario e nemmeno armi. Dal lato positivo, l'amministrazione americana dovrebbe lavorare con Israele, i Paesi arabi e gli altri attori internazionali, per indurre i palestinesi ad accettare l'esistenza dello Stato ebraico, arrivando a convincerli che hanno perso.

Questo significa convincere il governo israeliano della necessità non solo di difendersi, ma di prendere delle misure volte a dimostrare ai palestinesi che la loro è una causa senza speranza. Ciò richiede non un'episodica dimostrazione di forza (come la guerra del 2008-09 contro Hamas a Gaza), ma uno sforzo prolungato e sistematico per correggere una mentalità bellicosa. La vittoria di Israele aiuta direttamente il suo alleato americano, poiché alcuni dei suoi nemici – Hamas, Hezbollah, la Siria e l'Iran – sono altresì nemici degli Usa. E una tattica israeliana più dura aiuterebbe per certi versi il governo americano. Washington dovrebbe incoraggiare Gerusalemme a non impegnarsi in scambi di prigionieri con gruppi terroristici, per non permettere a Hezbollah di poter riarmarsi nel Sud del Libano, come pure a Fatah o ad Hamas a Gaza, e a non procedere a un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania (che avrebbe l'effetto di consegnare la regione ai terroristi di Hamas e di minacciare il trono hashemita in Giordania). La diplomazia che mira a porre fine al conflitto arabo-israeliano è prematura finché i palestinesi non rinunceranno al loro antisionismo. Quando questo momento arriverà, si potranno riavviare i negoziati e affrontare di nuovo le questioni di Oslo: i confini, le risorse, gli armamenti, i luoghi sacri, i diritti di residenza. Ma questo avverrà a distanza di anni o di decenni. Nel frattempo, un alleato deve vincere.

 

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