[b]Analisi di Fiamma Nirenstein, Elliot Abrams, Michael Sfaradi. Opinioni di Hosni Mubarak, Eyal Megged, Nabil Abu Rudein (portavoce di Abu Mazen)

Testata:Il Giornale – Il Foglio – La Stampa – L'Opinione – La Repubblica – L'Unità
Autore: Benyamin Netanyahu – Fiamma Nirenstein – Elliot Abrams – Michael Sfaradi – La redazione della Stampa – Alberto Stabile – Umberto De Giovannangeli
Titolo: «La risposta di Bibi a Obama, parola chiave per parola chiave – La sfida di Netanyahu: ora tocca ai palestinesi decidere – Se si parla solo di insediamenti, si perde un’altra occasione – Le parole di Netanyahu un rischio per la pace – Il discorso di Bibi»[/b]

Fonte:

Riportiamo dal FOGLIO 16/06/2009, a pag. 3, gran parte del testo del discorso di Benyamin Netanyahu dal titolo " La risposta di Bibi a Obama, parola chiave per parola chiave". Dal GIORNALE, a pag. 16, l'analisi di Fiamma Nirenstein dal titolo " La sfida di Netanyahu: ora tocca ai palestinesi decidere". Dal FOGLIO, a pag. 3, il commento di Elliot Abrams dal titolo " Se si parla solo di insediamenti, si perde un’altra occasione ". Dall'OPINIONE, a pag. 10, l'articolo di Michael Sfaradi dal titolo " Così parlò Benyamin Netanyahu ". Dalla STAMPA, a pag. 17, l'articolo dal titolo " Le parole di Netanyahu un rischio per la pace " con le dichiarazioni di Mubarak, dalla REPUBBLICA, a pag. 15, l'intervista di Alberto Stabile a Eyal Megged dal titolo " Il discorso di Bibi è stato deludente gli avevamo suggerito più coraggio ", dall'UNITA', a pag. 28, l'intervista di Umberto De Giovannangeli a Nabil Abu Rudein, portavoce di Abu Mazen, dal titolo " Ma quali aperture. Così Netanyahu uccide la pace " preceduti dal nostro commento. Il MANIFESTO dedica ben quattro articoli di critiche (che non riportiamo) al discorso di Netanyahu e uno solo agli scontri per il risultato delle elezioni in Iran. Non è che i "compagni" sono un po' troppo ossessionati da Bibi ?

Ecco gli articoli:

Il FOGLIO – Benyamin Netanyahu : " La risposta di Bibi a Obama, parola chiave per parola chiave "

Il desiderio di pace. “La pace è sempre stato il più grande desiderio del nostro popolo. I nostri profeti hanno dato al mondo una visione di pace, ci salutiamo tra di noi augurandoci la pace, le nostre preghiere si concludono con la parola pace”. La pace economica. “Mi rivolgo ai leader arabi e dico: ‘Incontriamoci. Parliamo di pace e facciamo la pace. Sono pronto a incontrarvi in ogni momento. Vorrei andare a Damasco, a Riad, a Beirut, in qualsiasi posto, anche a Gerusalemme. Chiedo ai paesi arabi di collaborare con i palestinesi e con noi per portare avanti una pace economica. La pace economica non è sostitutiva della pace politica, ma un elemento importante per raggiungerla. Insieme possiamo mettere in campo progetti per superare i problemi della nostra regione, come la desalinizzazione dell’acqua, o per massimizzare i vantaggi, come lo sviluppo dell’energia solare, o per aprire vie di trasporto di gas e risorse, e di collegamento tra Asia, Africa ed Europa’”. L’appello ai palestinesi. “Mi rivolgo a voi, nostri vicini palestinesi, guidati dall’Autorità palestinese, e dico: ‘Cominciamo con i negoziati immediatamente senza precondizioni. Israele rispetta i suoi impegni internazionali e si aspetta che tutte le parti rispettino i loro. Vogliamo vivere con voi in pace, come buoni vicini. Vogliamo che i nostri bambini e i vostri bambini non debbano mai più sperimentare la guerra; vogliamo che i genitori, i fratelli e le sorelle non debbano più conoscere l’agonia di perdere una persona amata in battaglia; vogliamo che i nostri figli siano capaci di sognare un futuro migliore e realizzare i loro sogni; e vogliamo che spendiamo insieme le nostre energie in aratri e roncole, non spade e lance. Conosco la faccia della guerra. Sono stato in battaglia. Ho perso cari amici e ho perso un fratello. Ho visto il dolore di famiglie in lutto. Non voglio la guerra. Nessuno in Israele vuole la guerra. Se uniamo le mani e lavoriamo insieme per la pace, non c’è limite allo sviluppo e alla prosperità che i nostri due popoli possono raggiungere – nell’economia, nell’agricoltura, nel commercio, nel turismo e nell’istruzione – soprattutto dando ai nostri giovani un mondo migliore in cui vivere, una vita piena di tranquillità, creatività, opportunità e speranza. Se i vantaggi della pace sono così evidenti, dobbiamo chiederci perché la pace rimanga così lontana. Perché questo conflitto dura da sessant’anni?”. Le origini del conflitto. “Nel discorso alla prima conferenza sionista a Basilea, il fondatore del movimento sionista Theodore Herzl disse a proposito della casa degli ebrei: ‘Questa idea è così grande che dobbiamo parlarne solanto nei termini più semplici’. Oggi parlerò dell’immensa sfida della pace nei termini più semplici possibili. La semplice verità è che le radici del conflitto erano e rimangono il rifiuto di riconoscere il diritto al popolo ebraico di avere uno stato, nella loro patria storica. Nel 1947, quando l’Onu propose il piano di partizione con uno stato ebraico e uno arabo, tutto il mondo arabo rifiutò la risoluzione. La comunità ebraica, al contrario, l’accolse danzando ed esultando. Gli arabi rifiutarono ogni forma di stato ebraico, con ogni genere di confine. Coloro che credono che la perenne ostilità contro Israele sia il frutto della nostra presenza in Giudea, Samaria e Gaza confondono la causa con l’effetto. Gli attacchi contro di noi cominciarono negli anni Venti, poi aumentarono in attacchi a tutto campo nel 1948 con la Dichiarazione dell’Indipendenza di Israele, continuarono con gli attacchi suicidi negli anni Cinquanta, con un picco nel 1967, alla vigilia della Guerra dei Sei giorni, nel tentativo di stringere un cappio al collo dello stato di Israele. Tutto questo è accaduto nei cinquant’anni prima che un singolo soldato israeliano mettesse piede in Giudea e Samaria. Fortunatamente, Egitto e Giordania hanno abbandonato questo circolo di ostilità. La firma dei trattati di pace ha portato quasi alla fine dei loro appelli contro Israele, alla fine del conflitto. Ma con nostro rammarico, questo non è successo con i palestinesi. Più ci avviciniamo a un accordo con loro, più loro ritrattano e alzano la posta con richieste che non sono coerenti con un vero desiderio di porre fine al conflitto”. I ritiri. “Molte persone ci hanno detto che il ritiro dai tTerritori sono la chiave di pace con i palestinesi. Bene, ci siamo ritirati. Ma ogni ritiro è stato accolto con grandi ondate di terrore, con attacchi suicidi e migliaia di missili. Abbiamo cercato di ritirarci con accordi e senza accordi. Abbiamo tentato ritiri parziali e ritiri completi. Nel 2000 e ancora l’anno scorso, Israele ha proposto un ritiro quasi completo in cambio della fine del conflitto, e per due volte le nostre offerte sono state rifiutate. Abbiamo lasciato fino all’ultimo centimetro della Striscia di Gaza, abbiamo sradicato centinaia di insediamenti con le migliaia di persone che ci abitavano e in risposta abbiamo ricevuto una pioggia di missili sulle nostre città, sui nostri figli. L’idea che i ritiri portino la pace con i plaestinesi, o che almeno la avvicinino, non ha finora superato il test della realtà. In più, Hamas nel sud e Hezbollah nel nord dichiarano in continuazione il loro impegno a “liberare” da Israele le città di Ashkelon, Beersheba, Acre e Haifa. I ritiri non hanno diminuito l’odio e, con nostro rammarico, i moderati palestinesi non sono ancora pronti a dire queste semplici parole: Israele è la nazione-stato del popolo ebraico, e lo resterà. Il raggiungimento della pace richiede coraggio e candore da entrambe le parti, non soltanto da parte di Israele. La leadership palestinese dovrebbe alzarsi e dire: ‘Basta con il conflitto. Riconosciamo il diritto al popolo ebraico di avere uno stato in questa terra e siamo pronti a vivere uno di fianco all’altro in una pace vera’. Desidero ardentemente che arrivi questo momento, quando i leader palestinesi diranno queste parole al nostro popolo e al loro popolo, in modo che una via si apra per risolvere tutti i problemi tra di noi, non importa quanto complicati”. La demilitarizzazione. “Il prerequisito fondamentale per porre fine al conflitto è un riconoscimento pubblico, vincolante e inequivocabile da parte dei palestinesi di Israele come lo stato del popolo ebraico. Per dare un significato concreto a questa dichiarazione, ci deve anche essere una chiara comprensione del fatto che il problema dei rifugiati palestinesi deve essere risolto fuori dai confini di Israele. E’ chiaro che ogni richiesta di sistemare i rifugiati in territorio israeliano mina l’esistenza di Israele come lo stato del popolo ebraico”. L’Olocausto e lo stato di Israele. “Il diritto del popolo ebraico ad avere uno stato nella terra di Israele non deriva dalle catastrofi che hanno tormentato il nostro popolo. Per duemila anni, certo, il popolo ebraico ha subito espulsioni, pogrom, diffamazioni e massacri culminati con l’Olocausto – una sofferenza che non ha paragoni nella storia dell’umanità. Ci sono quelli che dicono che se l’Olocausto non fosse avvenuto lo stato di Israele non ci sarebbe mai stato. Ma io dico che se lo stato di Israele fosse stato creato prima, l’Olocausto non ci sarebbe stato. Questa storia tragica di impotenza spiega perché il popolo ebraico abbia bisogno di un potere sovrano di autodifesa. Ma il nostro diritto di costruire uno stato sovrano qui, nella terra di Israele, deriva da un unico semplice fatto: questa è la terra degli ebrei, questa è la terra dove la nostra identità si è formata. Come disse il primo premier di Israele, David Ben Gurion, nella Dichiarazione di Indipendenza: “Il popolo ebraico è cresciuto nella terra di Israele ed è qui che il suo carattere spirituale, religioso e politico è stato formato. Qui ha raggiunto la sua sua sovranità e qui ha lasciato in eredità al mondo i suoi tesori nazionali e culturali, e il più eterno dei libri”. I termini della demilitarizzazione. “Dobbiamo dire tutta la verità: in questa terra vive una grande comunità palestinese. Non vogliamo governarla, non vogliamo regolarla, non vogliamo porre la nostra bandiera o la nostra cultura su di essa. Nella mia visione di pace, in questa nostra piccola terra, due popoli vivono liberamente, uno vicino all’altro, in amicizia e mutuo rispetto. Ognuno avrà la sua bandiera, il suo inno nazionale, il suo governo. E nessuno minaccerà la sicurezza o la sopravvivenza dell’altro. (…) Dobbiamo riconoscere questa realtà e allo stesso tempo tenere il punto sui principi essenziali per Israele. Ho già detto del primo – il riconoscimento. I palestinesi devono chiaramente e senza ambiguità riconoscere Israele come lo stato del popolo ebraico. Il secondo principio è: la demilitarizzazione. Il territorio sotto il controllo palestinese deve essere demilitarizzato con clausole inviolabili di sicurezza per Israele. Senza queste due condizioni, c’è il pericolo serio che emerga uno stato palestinese armato che si trasformi in un’altra base di terrorismo contro lo stato ebraico, come quella che c’è a Gaza. Non vogliamo Qassam su Petach Tikva, razzi Grad su Tel Aviv né missili sull’aeroporto Ben Gurion. Vogliamo la pace. Per averla dobbiamo garantire che i palestinesi non siano in grado di importare missili nel loro territorio, di costruire un esercito, di chiudere gli spazi aerei a noi, di fare patti come quelli di Hezbollah con l’Iran. Non è possibile per noi aderire al principio di uno stato palestinese senza la garanzia del fatto che sia demilitarizzato. Chiediamo ai nostri amici nella comunità internazionale, guidata dagli Stati Uniti, per la quale la sicurezza di Israele è importante, che ci siano impegni chiari per un futuro accordo di pace che il territorio controllato dai palestinesi sia demilitarizzato: senza un esercito, senza il controllo dello spazio aereo e con misure effettive di sicurezza per impedire il traffico di armi dentro al territorio – un monitoraggio vero, non quello che c’è oggi a Gaza. E naturalmente i palestinesi non avranno la possibilità di creare alcun genere di patti militari. Senza questa garanzia, prima o poi, questi territori diventeranno un altro Hamastan. E non possiamo accettarlo”. Gli insediamenti. “Israele ha bisogno di confini difendibili e Gerusalemme deve rimanese la capitale unita di Israele con libertà di religione per tutte le fedi. La questione territoriale sarà discussa nella parte finale dell’accordo di pace. Nel frattempo non abbiamo intenzione di costruire nuovi insediamenti né di aggiungere terreni a quelli esistenti. Ma dobbiamo dare la possibilità ai residenti di vivere vite normali, alle madri e ai padri di crescere i loro figli come le famiglie che vivono nelle altre parti. Gli abitanti degli inseddiamenti non sono né i nemici del popolo né della pace. Sono parte integrante del nostro popolo”. Come disse il profeta Isaia. “Mi appello ai leader arabi e alla leadership palsinese, continuiamo insieme sul percorso di Menahem Begin e Anwar Sadart, Yitzhak Rabin e re Hussein. Realizziamo insieme la visione del profeta Isaia che, a Gerusalemme 2700 anni fa, disse: ‘Le nazioni non alzeranno la spada contro altre nazioni, e impareranno a non farsi più la guerra’. Con l’aiuto di Dio, conosceremo cosa vuol dire non fare più la guerra. Conosceremo la pace”

Il GIORNALE – Fiamma Nirenstein : " La sfida di Netanyahu: ora tocca ai palestinesi decidere "

Per pronunciare quelle tre parole, Stato palestinese smilitarizzato, Bibi Netanyahu ha sofferto i dolori del parto. La casa del padre, lo storico Benzion, il sacrificio del fratello Yoni capo dell’operazione di Entebbe, la sua stessa vicenda di membro della Saieret Mathal, l’unità speciale antiterrore, i libri che fanno di lui un antesignano nel disegnare i pericoli del terrorismo, tutto gli vietava di promettere lo Stato ai palestinesi. Eppure l’ha fatto, non ha detto né «autonomia» né «confederazione con i giordani», ha proprio parlato di Stato palestinese a fianco dello Stato ebraico. E qui sta l’altro punto di novità: Netanyahu ha spostato il tema alla questione reale, quella che nel corso di questi anni ha impedito la pace con i palestinesi. E non si tratta di territorio: si tratta del rifiuto arabo. Bibi l’ha gettato sul tappeto come questione politica, e adesso non ci sarà più chi potrà ignorarlo. Adesso, la palla è nel campo palestinese e arabo, ma anche nelle mani di Obama. Il presidente americano ha fatto sapere di ritenere il discorso un importante passo avanti, ma in realtà il passo deve farlo lui e chiedere ad Abu Mazen: ma voi lo Stato degli ebrei accanto al vostro, lo accettate davvero? Fino a che punto desiderate il vostro Stato? O desiderate di più la scomparsa di Israele?
Per capire bene le ragioni di Netanyahu non dobbiamo farci confondere dalla questione territoriale: Israele non ha mai avuto problemi a cercare di scambiare terra con pace anche a prezzi elevatissimi. Gli è andata bene con l’Egitto, male col Libano, malissimo con i palestinesi da cui ha avuto a ogni sgombero terrorismo e missili. Da qui la richiesta di uno Stato demilitarizzato. Ma il discorso di Netanyahu contiene un’apertura totale sugli insediamenti, al contrario di quello che molti hanno scritto sbagliando, il rifiuto di bloccare la crescita naturale con la determinazione a non sgomberare. Dialogo senza precondizioni, ha detto Bibi. Certo, se si arriva ad accordi potranno esserci swap territoriali ma non verrà chiesto ai palestinesi di rinunciare a spazi che corrispondano ai confini del ’67.
Netanyahu punta soprattutto a una contropartita di carattere ideologico, e se il mondo vuole aiutare la pace è questa la sfida; se Obama vuole la pace, può chiedere a Netanyahu di essere generoso con la terra, e ai palestinesi e al mondo arabo di aprirsi alla legittimità della nazione ebraica. Peccato davvero che in queste prime ore di reazioni si assista al solito rifiuto. Esso appare purtroppo come un odio ontologico, razzista, che nega la storia degli ebrei e l’evidenza della esistenza di Israele come Stato ebraico. Per questo Netanyahu insiste sulla consueta richiesta di abbandonare l’idea del “ritorno” dei figli dei figli dei figli dei profughi, conservati nei campi artificialmente e con crudeltà da tutto il mondo arabo, in modo anomalo rispetto a qualsiasi altro profugo del mondo. Il ritorno – e Rabin, Peres, Clinton, Olmert, Bush, persino la Comunità europea, lo hanno ripetuto in mille trattative fallite – distruggerebbe demograficamente lo Stato ebraico, e quindi insistere significa attenersi alla prima spinta che determinò il rifiuto del novembre 1947 alla partizione: quella del no allo Stato ebraico. Questo no è risuonato negli anni a venire senza un attimo di sosta: con la guerra del ’48; nel ’67 con i tre no di Khartum; a Camp David con il no di Arafat; con Olmert cui Abu Mazen, il moderatissimo, ha detto no alla restituzione del 98 per cento dei territori più parte di Gerusalemme.
Adesso il fatto che Bibi chieda il riconoscimento della nazione che è sempre stata il centro della vita ebraica per 3.500 anni, la richiesta di cessare dal considerare gli ebrei dei casuali intrusi da espellere dalle città che hanno fondato e in cui ormai da duecento anni sono tornati stabilmente e con enormi progressi economici e culturali, pone una sfida che sta a tutto il mondo accettare. Perché i palestinesi non vogliono accettare che Israele sia uno Stato ebraico, come la Palestina sarà uno Stato palestinese? Perché Bashar Assad inveisce contro Netanyahu con l’accusa di apartheid solo perché chiede che gli ebrei stiano a Israele come gli italiani all’Italia? Perché Mubarak dice che la richiesta di riconoscimento dello Stato ebraico rovinerà tutto? Semplicemente perché riconoscere la legittimità dello Stato ebraico significa la fine di un conflitto di cui si è approfittato tutto il mondo arabo. In una parola: la novità del discorso del primo ministro israeliano non consiste tanto nella formula magica dello “Stato palestinese” quanto dello spostamento della questione allo spazio ideologico cui di fatto appartiene, quello del rifiuto o dell’accettazione. È per questo che la vera risposta a Obama è venuta quando Bibi gli ha detto che, contrariamente a quanto da lui sostenuto, la fondazione e l’origine di Israele non c’entra con la Shoah, con le sofferenze del popolo ebraico, quanto invece con la sua stessa identità che risiede tutta in quel fazzoletto di terra. Che Obama, dunque, spieghi al mondo arabo: uno Stato ebraico per gli ebrei, uno Stato palestinese per i palestinesi.
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Il FOGLIO – Elliot Abrams : " Se si parla solo di insediamenti, si perde un’altra occasione"

Elliot Abrams

Nel suo discorso il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha fatto un grande passo verso l’Amministrazione Obama, sostenendo l’ipotesi di uno stato palestinese. Per tutto il resto ha resistito alla pressione del presidente Obama. Prima di tutto, ha rifiutato il congelamento degli insediamenti e l’insistenza di Obama che Israele “fermi gli insediamenti” (qualsiasi cosa questo significhi) ed è invece restato fermo al patto Bush-Sharon sui settlement. Ha fatto riferimento a due aspetti di quell’accordo (nessun nuovo insediamento e nessuna aggiunta di terreni nella Cisgiordania per i settlement), ma allo stesso modo si può presumere che si atterrà anche alle altre due parti dell’accordo (nessun incentivo economico per i settler e costruzione soltanto in aree già costruite). Ha fatto riferimento in modo specifico alla necessità per i settler di condurre vite normali all’interno delle loro comunità, il che può soltanto voler dire che alcune costruzioni saranno permesse. In secondo luogo ha rifiutato il discorso di Obama al Cairo, secondo il quale Israele fu creato come reazione all’Olocausto. Netanyahu ha sottolineato che la terra di Israele (Cisgiordania compresa) era la patria di Abramo, Isacco e Giacobbe, e che i sionisti avevano sognato uno stato lì (e avevano lavorato per averlo) ben prima della Seconda guerra mondiale. Terzo, in un altro rifiuto al discorso obamiano, ha affermato che Israele aveva sempre voluto la pace ma era stato attaccato – prima, durante e dopo la sua lotta per l’indipendenza – dagli arabi. Non c’è pace, ha detto, perché gli stati arabi e i palestinesi rifiutano ancor oggi di accettare Israele come stato ebraico. Netanyahu non ha abbracciato la road map per ragioni che restano oscure. La road map porta a uno stato palestinese ma attraverso passaggi che necessitano della fine del terrorismo e dello smantellamento dei gruppi terroristici. Considerata l’attuale forza di Hamas, sembrerebbe che la road map sia adatta all’insistenza di Netanyahu su una entità palestinese demilitarizzata. Inoltre, se avesse abbracciato la road map sarebbe più facile per lui chiedere i vantaggi dell’accordo Sharon-Bush riguardo agli insediamenti. Il discorso di Netanyahu porta a chiedersi come è andata la sua conversazione con George Mitchell la scorsa settimana. Obama e Mitchell hanno chiesto a Israele, ai palestinesi e a tutti gli stati arabi di compiere alcuni gesti, ma i recenti commenti del presidente dell’Anp, Abu Mazen, e la lunga serie di rifiuti da parte del mondo arabo di accettare Israele li hanno già resi un obiettivo molto lontano. D’altro canto il discorso di Netanyahu non consente a Israele di spostare la colpa della mancanza d’iniziativa degli stati arabi sugli stessi stati arabi – almeno non agli occhi di chi (Obama, Clinton, Mitchell, e Jim Jones, per prendere quattro esempi a caso) che hanno già accettato la versione palestinese degli eventi in medio oriente, dove le concessioni di Israele vanno in direzione della pace. Mitchell può convocare colloqui israelopalestinesi, ma non porteranno da nessuna parte. L’Amministrazione Obama sembra determinata a ripetere tutti gli errori che ha fatto l’Amministrazione Bush, specialmente quello di concentrarsi su negoziati di facciata sul problema dello status finale mentre assottiglia le possibilità di un progresso reale sul campo in Cisgiordania. Il nostro governo è talmente determinato a creare il nirvana per i palestinesi che sembra voler ignorare le possibilità di dar loro adesso delle vite migliori – cosa su cui Netanyahu si è impegnato a lavorare con gli Stati Uniti. Se l’Amministrazione sceglie di combattere quasi soltanto sugli insediamenti, mostrerà che lo scontro con Netanyahu non è un problema che cerca di evitare ma una tattica che tenta di adottare. E ancora una volta andrà persa la possibilità di aiutare i moderati palestinesi a regalare veri miglioramenti alla vita dei palestinesi.

L'OPINIONE – Michael Sfaradi : " Così parlò Benjamin Netanyahu "

Il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha scelto l'aula magna dell'Università Bar Ilan di Tel Aviv per tenere un discorso di grande importanza politica davanti ai rappresentanti del suo governo, del Parlamento e delle ambasciate accreditate chiarendo quale è la posizione del suo governo anche alla luce dell'incontro con il presidente Barak Obama. Nella prima parte ha messo in luce i tre gravi motivi di preoccupazione ai quali lo Stato di Israele deve far fronte: la minaccia iraniana, la crisi economica internazionale e lo stato di perenne tensione al Nord con Hetzbollah e al sud nei confini con la striscia di Gaza. Ha ricordato che l'eventuale partner per una trattativa rimane il presidente Abu Mazen ed il suo entourage e che Hamas, con la sua politica medioevale è fuori dalle regole internazionali. Il destino di Gilad Shalit prigioniero nelle sue mani da oltre tre anni è soltanto l'esempio più eclatante di quanto sia impossibile un dialogo con questa controparte. "Il governo d'Israele non vuole la guerra, il popolo d'Israele non vuole la guerra e non c'è persona in Israele che vuole la "guerra"; il Primo Ministro, con questa frase ha inteso cancellare ogni dubbio sui sentimenti del popolo israeliano. Nonostante questo però è altrettanto chiaro che Israele non si suiciderà in nome della pace e che non lascerà il proprio futuro, la propria sicurezza e il proprio destino nelle mani di nessuno, ribadendo così il pensiero della maggioranza della popolazione. Nella prima parte, condita forse di troppa retorica e per questo destinata ai popoli e ai governi delle nazioni arabe vicine, ha esortato a pensare alla pace che sia di pari dignità per tutti. Ha chiesto ai vicini di riconoscere lo Stato di Israele come Stato ebraico, condizione essenziale per avviare una trattativa che oltre a garantire la pace garantisca anche l'esistenza di uno stato libero, democratico ed indipendente per la popolazione ebraica della regione. Chi si aspettava un cambiamento radicale con conseguente ammorbidimento delle posizioni israeliane dopo la trasformazione in atto nella politica estera statunitense si è dovuto ricredere, anche perché il Medio Oriente è una terra dove i corsi della storia sono legati a tematiche diverse da quelle con le quali siamo abituati a vivere in Occidente. Passi avanti sono stati comunque annunciati ed anche se con le riserve del caso alcuni punti meritano di essere messi nella giusta attenzione. Il governo Netanyahu accetta la possibilità della creazione di uno Stato palestinese con un governo indipendente che si prenda cura della sua popolazione, sapendo però, la storia lo insegna, che ogni volta che i palestinesi hanno avuto armi le hanno usate contro Israele e il destino di Sderot, Asquelon e Ashdod dopo il ritiro dalla striscia di Gaza ne sono la prova, Netanyahu esclude a priori che questa nazione palestinese possa avere un esercito, come esclude che i profughi palestinesi possano essere accolti all'interno di Israele, questo però i motivi di stabilità demografica. Anche se da parte palestinese il discorso di Netanyahu è stato malamente accolto e a Washington si è parlato unicamente di passi in avanti rispetto al passato, in Israele si respira la certezza che il Primo Ministro oltre ad aver dato un segnale di grande disponibilità abbia fatto capire al mondo intero che Israele ha una sua forza a prescindere dai suoi alleati e che non è disposta, in nome di questa o quella amicizia o alleanza, a mettere a rischio la sua indipendenza e la sua democrazia.

La STAMPA : " Le parole di Netanyahu un rischio per la pace "

Hosni Mubarak

Non condividiamo le dichiarazioni di Mubarak. Nel suo discorso Netanyahu è stato chiaro: Stato palestinese a patto che sia smilitarizzato e in cambio del riconoscimento di Israele come Stato ebraico.
Cosa interessa ai paesi arabi e ai palestinesi? Uno Stato palestinese o l'annientamento di quello israeliano? Ecco l'articolo:

IL CAIRO
Il presidente egiziano Hosni Mubarak ha affermato ieri che le richieste avanzate dal primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu rischiano di far «abortire» il processo di pace. «La richiesta di riconoscimento d’Israele come Stato ebraico ignora la complessità della questione e fa abortire le possibilità di pace», ha detto il presidente parlando davanti ai commando dell’esercito, all’indomani del discorso di Netanyahu sul futuro del processo di pace. Mubarak, che ha detto di aver informato Netanyahu del suo parere, ha aggiunto che «senza una pace giusta fra israeliani e palestinesi il Medio Oriente rimarrà preda di caos e instabilità». Mubarak ha poi esortato Netanyahu a riprendere il negoziato con i palestinesi «là dove è stato lasciato, senza indugi».

La REPUBBLICA – Alberto Stabile : " Il discorso di Bibi è stato deludente gli avevamo suggerito più coraggio "

Eyal Megged

Eyal Megged dichiara : " all´indomani della guerra dei Sei giorni, quando alle nostre tre richieste – riconoscimento, negoziato, pace – il mondo arabo rispose con tre "No". Oggi gli arabi alzano quei vessilli e dicono tre "Sì". ".
Gli arabi, in realtà, continuano a rispondere "no" a tutte e tre le richieste. Abu Mazen si rifiuta di riconoscere Israele come Stato ebraico, per quanto riguarda i negoziati e la pace, le reazioni al discorso di Netanyahu e le richieste avanzate dai paesi arabi non fanno intendere che il loro "no" sia diventato "sì".
" Cosa vuol dire che i palestinesi devono riconoscere il carattere ebraico dello Stato d´Israele? Lei che conosce da tempo Netanyahu ha capito cosa intende con questa condizione?
«Non lo so. Non capisco che cosa ci si possa guadagnare. Noi sappiamo benissimo che Israele è lo stato ebraico, perché dovremmo avere bisogno di quel tipo di riconoscimento? Mi sembra una cosa infantile».". La richiesta di riconoscere Israele come Stato ebraico non è una "cosa infantile", ma il punto fondamentale per i negoziati di pace dal momento che porterebbe alla fine dell'assurda pretesa del diritto al ritorno dei profughi palestinesi, pretesa che, come conseguenza, comporterebbe la cancellazione di Israele.

Ecco l'intervista:

GERUSALEMME – Eyal Megged è uno dei due scrittori israeliani, l´altro è David Grossman, che Benyamin Netanyahu ha voluto consultare alla vigilia del suo discorso all´Università Bar Ilan. Amico di vecchia data del premier, Megged non nasconde oggi la sua delusione: «Abbiamo suggerito a Netanyahu una generosa adozione, cito le esatte parole adoperate, dell´iniziativa di pace araba. Invece è venuto fuori con un discorso che gira attorno ad una pace astratta e a nuove condizioni».
Signor Megged, non succede tutti i giorni che un uomo di stato, alla vigilia di un passo importante, senta il bisogno di confrontarsi con degli scrittori.
«In Israele non è così, o meglio non era così. Ben Gurion amava circondarsi di romanzieri e poeti come Yizhar e Alterman».
E come ha trovato Netanyahu? Disponibile?
«Oh sì, certo. Ci ha ascoltati».
Cosa ha detto al primo ministro?
«Gli ho detto che il suo avrebbe dovuto essere un discorso drammatico, in accordo con il cambiamento drammatico avvenuto nel mondo arabo. Vede, per quelli della mia generazione un evento chiave è la conferenza di Kharthoum, all´indomani della guerra dei Sei giorni, quando alle nostre tre richieste – riconoscimento, negoziato, pace – il mondo arabo rispose con tre "No". Oggi gli arabi alzano quei vessilli e dicono tre "Sì". Per me è un sogno che si realizza, e penso che il primo ministro avrebbe dovuto sottolinearlo nel suo discorso».
Invece…
«Invece ho trovato che il suo discorso non fosse per nulla nello spirito di ciò che gli abbiamo detto. Io penso che oggi abbiamo una grande opportunità di aprici all´iniziativa di pace araba, ma probabilmente lui la pensa diversamente».
Evidentemente Netanyahu ha temuto di perdere la coalizione.
«Giusto, la coalizione è salva e la pace no».
Dal suo punto di vista, tuttavia, Netanyahu ha fatto un passo avanti, ammettendo la possibilità di un futuro stato palestinese, seppure smilitarizzato.
«È vero, è andato avanti, ma… Io sono suo amico, voglio solo il suo bene, ma non è questo il punto. È la pace che avrebbe dovuto mandare avanti, e questo non è successo».
Cosa vuol dire che i palestinesi devono riconoscere il carattere ebraico dello Stato d´Israele? Lei che conosce da tempo Netanyahu ha capito cosa intende con questa condizione?
«Non lo so. Non capisco che cosa ci si possa guadagnare. Noi sappiamo benissimo che Israele è lo stato ebraico, perché dovremmo avere bisogno di quel tipo di riconoscimento? Mi sembra una cosa infantile».
Tranne, mi permetta, che non si voglia stabilire una volta e per tutte che essendo uno stato ebraico i palestinesi non hanno diritto di ritornarvi. O, parafrasando Lieberman a proposito degli arabi-israeliani, di rimanervi.
«Davvero non lo so. Sono talmente all´oscuro di quali tipi di vantaggi ne possano derivare».
In definitiva, pensa che Israele stia perdendo un´occasione? «Si, ora quelli che perdono l´occasione siamo noi. Può darsi che sotto tutte queste pietre da rivoltare non vi siano che serpenti, ma dobbiamo quanto meno controllare».
Forse Netanyahu non è la persona adatta.
«Mi auguro di sì, invece. Spero che si tratti soltanto di un´occasione perduta e che in futuro ve ne siano altre. Ma non credo che un cambio di governo sia la medicina adatta. Ciò che si deve cambiare è il nostro stato di coscienza, e il compito di un leader è proprio questo».

L'UNITA' – Umberto De Giovannangeli : " Ma quali aperture. Così Netanyahu uccide la pace "

Nabil Abu Rudeina

Rudeina sostiene che : " «Le proposte avanzate da Netanyahu – ribadisce il portavoce presidenziale – rappresentano un siluro contro le iniziative di pace». ".
Noi riteniamo che l'unico "siluro contro le iniziative di pace" sia l'ossessione palestinese e araba per la distruzione di Israele. Le proposte di Netanyahu non piacciono perchè non comportano la cancellazione di Israele. E' evidente che, più che la fondazione del loro Stato, i palestinesi sono interessati alla demolizione di quello ebraico. Ecco l'intervista:

Il suo volto divenne famoso in tutto il mondo nei giorni dell’assedio alla Muqata da parte dell’esercito israeliano. Lui, Nabil Abu Rudeina, compariva sempre a fianco di Yasser Arafat, del quale era molto più di un portavoce: era il collaboratore più stretto, un amico fidato. Oggi, Abu Rudeina è portavoce del presidente dell’Autorità nazionale palestinese, Mahmoud Abbas (Abu Mazen). L’Unità lo ha intervistato il giorno dopo il discorso del premier israeliano, Benjamin Netanyahu. «Le proposte avanzate da Netanyahu – ribadisce il portavoce presidenziale – rappresentano un siluro contro le iniziative di pace».
La Casa Bianca ha giudicato il discorso di Benjamin Netanyahu un importante passo in avanti…
«Comprendiamo la necessità del presidente Obama di non entrare in rotta di collisione con un Paese alleato, ma nel merito delle cose dette e di ciò che è stato omesso, il discorso del primo ministro israeliano è un siluro contro il processo di pace…».
Un’affermazione molto pesante. Netanyahu ha finalmente parlato di uno Stato palestinese…
«Ma ha messo tali e tanti paletti di rendere quell’affermazione vuota di contenuti reali…».
Netanyahu parla di uno Stato palestinese smilitarizzato.
«Non è questo il punto dirimente. Il punto è che l’idea che Netanyahu ha di uno “Stato” palestinese, è molto simile ad una riserva, totalmente dipendente da Israele, con confini aleatori. Francamente mi pare davvero eccessivo giudicare un importante passo avanti il solo riferimento ad uno Stato palestinese; un riferimento, è bene ricordarlo, che è già contenuto in quella Road Map (il Tracciato di pace del Quartetto – Onu, Russia, Usa, Ue – per il Medio Oriente, ndr.) che il primo ministro israeliano ha detto di voler assumere. Le nostre richieste principali sono la fine dell’occupazione, il problema dei profughi e quello degli insediamenti, il resto sono dettagli che possono essere risolti con il negoziato».
Nel suo discorso, Netanyahu ha parlato di Gerusalemme…
«Ribadendo che resterà l’eterna e indivisibile capitale dello Stato d’Israele. Dunque, lo status di Gerusalemme è per Netanyahu materia non negoziabile. Ora, nessun dirigente palestinese, nessun leader arabo, neanche il più disponibile al compromesso, potrebbe mai sottoscrivere un accordo di pace che non contemplasse una condivisione di Gerusalemme come capitale di due Stati. La verità è un’altra…».
E quale sarebbe questa verità vista da Ramallah?
«Dopo l’importante discorso pronunciato al Cairo dal presidente Obama, Netanyahu non poteva continuare a porsi su un terreno di scontro frontale con gli Stati Uniti. Doveva “concedere” qualcosa. In termini verbali. Ma nel farlo, ha posto tali e tante condizioni da aver reso chiaro il suo gioco: costringere i palestinesi a chiamarsi fuori dal negoziato».
Qual è la risposta dell’Anp?
«Quella che Abu Mazen ha ribadito al presidente Obama nel loro incontro alla Casa Bianca: siamo pronti a riprendere da subito il percorso di pace ma nella chiarezza degli intenti da ambedue le parti…».
Netanyahu è stato chiaro…
«Sulla strada da lui indicata non arriveremo mai alla pace, le parole di Netanyahu sabotano tutti gli sforzi, in aperta sfida alle posizioni dei palestinesi, del mondo arabo e degli Stati Uniti».
Gli Stati Uniti, vale a dire Barack Obama.
«Mai come oggi è decisiva la sua determinazione a esercitare un ruolo di super partes attiva. Il che significa, ad esempio, ricordare a Netanyahu che dovrebbe rispettare la Road Map, in cui Israele tra l’altro si è impegnato a congelare gli insediamenti».
All’Anp, Netanyahu chiede il riconoscimento d’Israele come Stato ebraico.
«In Israele vivono oltre un milione di cittadini arabi. Come ci si può chiedere di cancellare la loro identità?»

 

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