Fonte: http://moked.it/[/link]

[b]Giulio Busi, Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2009[/b]

E' un vecchio gioco di società, rinfranca l'umore, aiuta la circolazione e distrae anche i più inveterati ipocondriaci. Prendersela coi medici è un rimedio che costa poco e può dare grandi soddisfazioni. Se poi lo mette in pratica uno scrittore di talento, produce anche ottima letteratura. Italo Svevo è forse l'autore italiano che ha praticato la iatrofobia con maggior successo. Per lui si trattava di una vera vocazione, e per di più ereditaria: «Mio padre odiava i medici quanto i becchini», annota Zeno nella Coscienza. Per Svevo i dottori avevano la grave colpa di voler eliminare il bene inestimabile della malattia: «Davvero dobbiamo togliere all'umanità quello che essa ha di meglio?».

Lo scrittore infieriva soprattutto contro le pretese della scienza positivista, mentre era più tollerante, e anzi quasi empatico, con i medici affabulatori. Nel novero dei ciarlieri innocui rientrava per esempio il filosofo e sessuologo austriaco Otto Weininger, «le cui teorie – sosteneva Svevo non guariscono mai, ma sono una comoda compagnia, quando si corre dietro alle donne». Il vero eroe dei medici abili nell'inventare miti rimase per il padre della psicanalisi: «Grande uomo quel nostro Freud, ma più peri romanzieri che per gli ammalati», scriveva a un amico nel 1927. Nella Trieste ebraica, da cui proveniva Svevo, i medici costituivano un gruppo numeroso, attivo e inquieto. Si trattava di una professione tradizionale tra gli ebrei, che prometteva prestigio, e rifletteva l'adesione a un ideale di progresso e inserimento sociale. Ma tra Otto e Novecento, quando Svevo maturava la propria vocazione letteraria, le speranze d'integrazione degli ebrei nella società maggioritaria si scontravano già con l'antisemitismo, che si andava diffondendo nell'impero austro-ungarico. Del resto, anche nel Friuli italiano, il vecchio antigiudaismo di matrice cattolica rialzava la testa. Un caso embiematico fu il boicottaggio di Ettore Sachs, in occasione della sua nomina a medico condotto: «A S. Daniele, il ghetto unitosi in connubio coi liberali affidò la condotta medica a un ebreo, contro la manifesta volontà della popolazione», si lamentava un notabile della destra cattolica, mentre la stampa conservatrice rincarava la dose, affermando che quattrocento famiglie cristiane si dovevano «pappare» un medico semita. Vecchi fantasmi di pregiudizi duri a morire ma anche un assaggio delle persecuzioni che sarebbero venute qualche decennio dopo. Un bel profilo di medico ebreo triestino, che unì passione laica, attività antifascista e lotta contro le leggi razziali è quello di Bruno Pincherle. Finito in carcere più volte durante il ventennio, attivo nella resistenza e, dopo la guerra, impegnato nella vita politica della città, Pincherle dichiarava di aver «sempre profondamente sentito la funzione sociale della sua professione». Nel 1939, in piena campagna antisemita ebbe il coraggio di portare un mazzo di garofani rossi sull'erma abbattuta di Italo Svevo, imbrattata dalla scritta: «Giudeo, il bronzo sia dato alla patria». Un medico capace di curare l'anima e la dignità, insomma, che sarebbe piaciuto anche a quell'inguaribile ipocondriaco di Svevo.

Giulio Busi, Il Sole 24 Ore, 8 marzo 2009

 

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