Si intitola significativamente “Svelata” (Unveiled) : arte nuova dal Medio Oriente la mostra che il fortunato e per molti aspetti geniale art dealer e talent scout Charles Saatchi propone nella sua prestigiosa galleria londinese fino al 9 maggio.

Una mostra che già dal titolo promette di infilare dritto dritto il dito nella piaga dei tabù che soffocano buona parte del Medio Oriente e sollevare quindi una congrua dose di scandalo e di interesse mediatico.

Promesse mantenute. Il velo, al centro di controversie politiche e sociali infinite, soprattutto in Europa, in mostra si trova al centro dell’attacco o della sferzante ironia di 21 artisti contemporanei, attivi fra USA, Europa, mondo arabo e Iran (nell’immagine un opera dell’egiziano Khaled Hafez). E Saatchi implicitamente si proclama loro scopritore, anzi “disvelatore”, anche se questo non è vero perché quasi tutti gli artisti in mostra hanno già alle spalle un lunghissimo curriculum, pieno di personali e di partecipazioni a biennali e altre rassegne internazionali.

Tuttavia la stampa grida al miracolo: l’arte islamica, si sente dire, o alternativamente “araba” (è molto difficile per molti giornalisti usare correttamente e a proposito i due aggettivi: spessissimo, negli articoli d’arte e di cultura pubblicati in Italia “arabo” e “islamico” sono usati come sinonimi e il secondo, in generale, “piace” di più) non è integralista e non è solo astratta. Anche in quei posti tormentati ci sono “artisti del dissenso”, gente che all’ombra delle moschee rema contro, accusa e fa sarcasmo.

Bella scoperta. Certo che ci sono. Chiunque si interessi anche superficialmente di arte contemporanea prodotta in Asia, Africa o nel cosiddetto “Medio Oriente”, sa benissimo che da quelle parti emergono continuamente decine e decine di nuovi talenti (infinitamente più numerosi di quelli che Saatchi presenta, ça va sans dire), sostenuti spesso dall’esistenza di una tradizione moderna, cioè da almeno tre-cinque (secondo i paesi) generazioni di pittori e scultori in buona parte formatisi in Europa dove hanno appreso gli stili e le tecniche caratteristiche del Novecento; e sostenuti oggi soprattutto dai petrodollari che affluiscono copiosi come non mai dagli Emirati – nonostante la crisi – e da una moda travolgente. Talmente travolgente che nemmeno Saatchi ha potuto resisterle e arriva buon ultimo, dopo la Tate, il Pompidou, il KunstMuseum di Bonn, la Fondazione Tapies di Barcellona, il Moma di New York e persino il Macro di Roma, a presentare questo tipo di lavori.

D’altra parte non è difficile immaginare che moltissimi artisti arabi contemporanei siano dei laici che temono più di ogni altra cosa le donne bardate di veli neri e gli integralisti islamici, per l’ottima ragione che i fondamentalisti, non appena ne hanno il potere o anche semplicemente l’occasione, impediscono loro di lavorare, di coltivare liberamente la loro espressione e il loro talento e addirittura di studiare arte, improvvisamente bollata come “degenerata propaganda occidentale” (un aggettivo che suona familiare… no ?).

Come è accaduto in Algeria, dove molti musicisti e pittori e professori d’arte sono stati sgozzati dagli integralisti, come è accaduto nell’Afghanistan dei talebani e, in misura minore, potrebbe accadere anche in Egitto, dove peraltro modelli e modelle nude nelle Accademie d’arte sono stati banditi già nel 1970 su pressione dei Fratelli Musulmani.

Quindi non c’è molto da sorprendersi; certo c’è da essere solidali, sempre, con l’arte come manifestazione di libertà personale contrapposta all’oscurantismo.

Ma secondo me c’è anche da chiedersi che cosa nella mostra di Saatchi e in molte altre dedicate all’argomento si intenda per “Medio Oriente”: in genere questa formula include iraniani, arabi, maghrebini, spesso anche turchi, ma -esclude, anzi passa sotto un tombale silenzio, gli israeliani.

Come se gli artisti israeliani non fossero in Medio Oriente e potessero tranquillamente essere ignorati; esattamente come coloro che hanno scelto di proclamare Gerusalemme capitale araba (!) della cultura 2009 fanno finta di ignorare Israele e i problemi insormontabili di collegamento, trasporti e comunicazione che questa elezione, puramente provocatoria, comporta.

Infatti non tutti sanno e non tutti ricordano che in Libano esiste ancora ed è ben vigente una legge che considera colpevole di tradimento nei confronti dello stato qualunque cittadino che intrattenga relazioni ufficiali di qualsivoglia tipo con cittadini o istituzioni israeliane: quindi anche un artista che esponga in una mostra insieme a israeliani è imputabile e condannabile in base a questa legge. Ovviamente c’è anche da ricordare che nessun siriano può rientrare nel suo paese dopo aver messo piede in Israele, pardon, nella “Palestina occupata”.

Sarà dunque facile per artisti e intellettuali libanesi e siriani affluire copiosi ai festeggiamenti gerosolimitani e poi tornarsene felicemente a casa. Ma questo lo vedremo.

Intanto giova osservare che la mostra di Saatchi, come moltissime altre, evita semplicemente il problema ed elude la “prova del fuoco” del confronto vero, dello scambio vero, dell’apertura vera che è quella che spalanca i ghetti e rimette Israele al suo posto sulla mappa, presentando i suoi artisti spesso infinitamente più agguerriti e intraprendenti verso l’altro di quanto non vogliano credere i curatori occidentali così politically correct.

Un confronto che peraltro fra artisti e uomini di cultura è tendenzialmente più facile o almeno possibile più che in altri contesti.

E chissà che a forza di gocce magari non si riempia il mare ma almeno un laghetto.

Unveiled. New art from Middle East, Saatchi Gallery, Duke of York’s HQ, King’s Road, London, fino al 9 maggio, 10am-6pm tutti i giorni.
www.saatchi-gallery.co.uk

[b]Martina Corgnati, docente di Storia dell’arte contemporanea all’Accademia Albertina di Torino[/b]

 

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