Ancora addormentati dopo Mumbai
[b]di Daniel Pipes – Liberal 11 dicembre 2008[/b]
Pezzo in lingua originale inglese: Still Asleep After Mumbai
Le vittime sorprese dalle atrocità terroristiche perpetrate in nome dell'Islam generalmente provano paura, subiscono torture, avvertono ribrezzo e conoscono l'inferno, con sirene spiegate, cecchini appostati e carneficina nelle strade. È stato questo il recente caso di Bombay (oggi chiamata Mumbai), dove circa 195 persone sono rimaste uccise e 300 ferite. Ma nonostante il vero obiettivo del terrorismo islamista, per il mondo in generale, l'episodio è stato svigorito, con apologetica e giustificazione a stemperare repulsione e raccapriccio.
Se il terrorismo è considerato come la più crudele e disumana forma di guerra, atroce nella sua brutalità di piccolo calibro e nel dolore inflitto intenzionalmente, il terrorismo islamista è diventato altresì teatro politico ben-simulato. Gli attori interpretano i loro ruoli da copione, poi abbandonano la scena, presto dimenticata.
In effetti, riflettendo sugli episodi di terrorismo islamista che hanno maggiormente richiamato l'attenzione del pubblico e perpetrati ai danni degli occidentali a partire dall'11 settembre – l'attacco contro cittadini australiani a Bali, contro gli spagnoli a Madrid, i russi a Beslan, i britannici a Londra – emerge un duplice schema: esultanza musulmana e rifiuto occidentale. Si replica la stessa tragedia, cambiano solamente i nomi.
Esultanza musulmana. L'attacco di Mumbai ha motivato delle condanne di circostanza, ha messo a tacere le scuse ufficiali e la profusione di entusiasmi ufficiosi. Come rileva l'Israel Intelligence Heritage & Commemoration Centre, i governi iraniano e siriano hanno sfruttato l'accaduto "per attaccare gli Stati Uniti, Israele e il movimento sionista, e farli passare per i responsabili del terrorismo in India e nel mondo in generale". Il sito web di Al-Jazeera è pieno zeppo di commenti del genere: "Allah, garantisci la vittoria ai musulmani. Allah, garantisci la vittoria al jihad", e ancora "L'uccisione di un rabbino ebreo e di sua moglie nel centro ebraico di Mumbai è una notizia confortante".
Simile suprematismo e fanatismo non riescono più a sorprendere, vista la ben-documentata approvazione del terrorismo da parte di innumerevoli musulmani. Ad esempio, il Pew Research Center for the People & the Press ha condotto nella primavera 2006 un sondaggio attitudinale su vasta scala dal titolo "The Great Divide: How Westerners and Muslims View Each Other" ("La Grande Divisione: Come si Vedono gli Occidentali e i Musulmani"). Dalle indagini demoscopiche condotte su circa un migliaio di persone in seno ad ognuna delle dieci popolazioni musulmane intervistate è emersa una proporzione pericolosamente alta di musulmani che, all'occasione, giustificano gli attentati suicidi: il 13 percento in Germania, il 22 percento in Pakistan, il 26 percento in Turchia e il 69 percento in Nigeria.
Un'allarmante porzione ha altresì dichiarato di avere una certa fiducia in Osama bin Laden: l'8 percento in Turchia, il 48 percento in Pakistan, il 68 percento in Egitto e il 72 percento in Nigeria. Ecco le conclusioni da me tratte nel 2006 in merito al sondaggio Pew: "Queste incredibili cifre denotano che il terrorismo musulmano ha delle radici profonde e rimarrà un pericolo per gli anni a venire". Ovvia illazione, no?
Rifiuto occidentale. No. Il fatto che il pesce terrorista stia nuotando in un ospitale mare musulmano quasi svanisce tra i piagnucolii del mondo politico, giornalistico e accademico occidentali. Che la si chiami political correctness, multiculturalismo o odio verso se stessi, qualunque sia il nome, questa mentalità causa delusione e titubanza.
La nomenclatura mette a nudo questo rifiuto. Quando a colpire è un solo jihadista, quando i politici, le forze dell'ordine e i media uniscono le forze per negare perfino la realtà del terrorismo, e quando tutto deve far riconoscere la natura terroristica di un attacco, come a Mumbai, un pedante establishment rifugge il problema per evitare di attribuire la colpa ai terroristi.
Ho documentato questa riluttanza, elencando venti eufemismi scovati dalla stampa per descrivere gli islamisti che attaccarono una scuola a Beslan nel 2004: aggressori, assalitori, assassini, attentatori, attivisti, combattenti, commando, criminali, estremisti, gruppo, guerriglieri, insorti, militanti, perpetratori, predoni, radicali, rapitori di bambini, ribelli, separatisti, sequestratori, tutt'altro che terroristi.
E se terrorista è scortese, aggettivi come islamista, islamico e musulmano diventano innominabili. Il mio blog "Not Calling Islamism the Enemy" fornisce copiosi esempi di questa riluttanza, con le sue motivazioni. In poche parole, coloro che rimpiazzerebbero la guerra al terrorismo con una lotta per la sicurezza e il progresso immaginano che questo gambetto linguistico conquisterà i cuori e le menti musulmani.
Dopo Mumbai, Steven Emerson, Don Feder, Lela Gilbert, Caroline Glick, Tom Gross, William Kristol, Dorothy Rabinowitz e Mark Steyn continuano a rilevare vari aspetti di questo futile comportamento linguistico, con Emerson che arguisce con amarezza: "A oltre sette anni dall'11 settembre, possiamo adesso emettere un verdetto: i terroristi islamici hanno conquistato i nostri cuori e le nostre menti".
Alla fine cosa desterà gli occidentali dal loro stupore, cosa li indurrà a dare un nome al nemico e a combattere la guerra per vincerla? Solo una cosa sembra probabile: le morti di massa, e mi riferisco a 100.000 vittime in un attacco con armi di distruzione di massa. Eccezion fatta per ciò, a quanto pare, gran parte dell'Occidente, utilizzando con soddisfazione misure difensive contro "attivisti" descritti in modo bizzarro, sonnecchierà tranquillamente.
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