Mussolini e il Manifesto della razza
[b][size=14]16.07.2008 Mussolini e il Manifesto della razza, sua fu la paternità diretta di quel testo
Autore: Mauro Canali, Titolo: «Il manifesto del Duce»
Da LIBERAL del 15 luglio 2008[/size][/b]
Esattamente settanta anni fa, il 14 luglio 1938, veniva pubblicato dal Giornale d'Italia il cosiddetto "manifesto sulla razza". Compilato da dieci "scienziati" e costituito di dieci assunti, questo sconcio decalogo suscitò nella stampa italiana, dopo un primo momento di disorientamento, un coro di entusiastici consensi e di commenti servili, tutti orientati a incoraggiare il regime fascista sulla strada di una persecuzione coerente e rigorosa degli ebrei.
Con i suoi primi sei articoli il manifesto tentava di dimostrare che l'esistente razza italiana era una pura razza ariana, mentre con gli ultimi tre suggeriva una vera e propria politica razzista, resa necessaria, così sosteneva il manifesto, dalle esigenze di conservare pura la razza italiana. Mentre il punto 8 escludeva l'esistenza di una comune razza mediterranea, e quindi l'esistenza di una razza italiana dalle comuni radici con le razze semitiche e camitiche, il punto 9 dichiarava categoricamente che "gli ebrei non appartengono alla razza italiana", e il punto 10 auspicava che si prendessero le necessarie misure per impedire l'alterazione dei caratteri fisici e psicologici puramente europei degli italiani. Anche se ufficialmente i riflettori mediatici vennero ovviamente puntati sui dieci "scienziati" firmatari del manifesto, sulla sua reale paternità qualcosa di significativo ce lo svela nel suo diario Ciano, quando il 14 luglio appunta: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d'italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l'egida della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l'ha quasi completamente redatto lui». La conferma viene da una cronaca di Bottai della seduta del Gran Consiglio del 6 ottobre, in cui si stava discutendo della questione razziale. A un certo punto, scrive Bottai, intervenne Mussolini che alludendo al "manifesto" affermava: «Sono io, che praticamente l'ho dettato». La realtà è che la bozza provvisoria, sulla quale alcuni tra i pi autorevoli dei dieci scienziati , come ad esempio Pende e Visco, intendevano ancora intervenire perché da loro considerata non ancora del tutto rispondente alle loro idee, aveva subito interventi pesanti di Mussolini, che erano valsi a trasformare il manifesto in una sorta di "breviario del razzista", utile ai suoi obiettivi politici. E vani erano risultati i tentativi posti in atto dagli "scienziati" per ritirare la loro firma dal documento. Le grida, i clamori, le invettive che si alzarono contro gli ebrei nei giorni seguenti da tutti i fogli ufficiali e ufficiosi, dai più paludati a quelli militanti, rappresentano una delle pagine più vergognose della storia italiana. E'in questo clima che vide la luce il quindicinale La difesa della razza, di Telesio Interlandi. A rinfocolare la "caccia all'ebreo" ci pensò il comunicato del Pnf del 25 luglio, che prendeva lo spunto dall'incontro del segretario Starace con i dieci firmatari del manifesto. Anche in questo caso è Ciano a rivelare che, naturalmente, era sempre Mussolini a orchestrare tutta l'iniziativa. Infatti Ciano, il 15 luglio, riporta che Mussolini gli aveva confidato che per la questione della razza avrebbe fatto «chiamare gli "studiosi" dal Segretario del Partito per dichiarare loro la presa di posizione ufficiale del regime nei confronti di questo problema. Presa di posizione che non significa persecuzione, ma discriminazione». Il 19 luglio Mussolini intanto anticipava a Bottai le misure successive che avrebbe preso contro gli ebrei: «soluzioni graduali, tendenti a escluderli dall'esercito, dalla magistratura, dalla scuola». Nel comunicato del 25 luglio, Starace inseriva, tra le ragioni a favore della discriminazione, quella che identificava gli ebrei con l'antifascismo. Dopo aver dichiarato genericamente che, con la costituzione dell'impero, l'Italia era venuta in contatto con altre razze, e quindi doveva difendersi «da ogni ibridismo e contaminazione – e dopo aver rovesciato grottescamente le accuse di razzismo sugli ebrei – essi si considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, come una razza diversa e superiore alle altre – Starace infatti dichiarava che "nonostante la politica tollerante del Regime gli ebrei hanno, in ogni nazione, costituito – coi loro uomini e coi loro mezzi – lo stato maggiore dell'antifascismo». Dunque, ebreo=antifoscista. La bislacca teoria venne ripresa, il 6 ottobre al Gran Consiglio, proprio da Mussolini, il quale, dopo aver precisato, come testimonia Bottai, che «il residuo antifascismo è di marca ebraica», aveva grottescamente concluso a titolo di esempio che «i conati di azione ostile a Hitler, durante il suo viaggio in Italia, sono di marca ebraica». La volontà di andare fino in fondo con la campagna antisemitica venne espressa da Mussolini il 30 luglio, quando, dopo una visita a Forlì a un campo di avanguardisti, avvertirà i federali riuniti attorno a sé «che anche nella questione della razza noi tireremo dritti». E infatti il 6 ottobre del 1938 si ebbe la prima sciagurata conclusione ufficiale della campagna razzista. Nella riunione del Gran Consiglio, tenuta in ore notturne, dopo un dibattito dominato da Mussolini, venne approvato una "dichiarazione sulla razza" che forniva al regime fascista una veste legislativa per la persecuzione antisemitica. In realtà il testo approvato era quello elaborato in precedenza da Mussolini. Sul dibattito che si svolse tra le 22.30 del 6 e le 2.30 del 7 ottobre abbiamo due testimoni eccellenti, Ciano e Bottai. Ciano aveva già manifestato molte perplessità sulle leggi razziali, confidando a Bottai, sin dal 6 agosto, che se fosse dipeso da lui avrebbe limitato il problema della razza «a due aspetti: difesa dal meticciato nelle terre dell'Impero; difesa dagli stranieri ebrei, cacciati in Italia da altri Paesi». Sappiamo da Ciano che il dibattito ci fu ma che la voce degli oppositori delle leggi antisemitiche fu molto flebile. Si mostrarono contrari alla dichiarazione Balbo, De Bono e Federzoni, mentre a sorprendere Ciano fu l'intransigenza manifestata da Bottai, il quale opponendosi «a qualsiasi attenuazione dei provvedimenti», aveva cinicamente concluso, alludendo agli ebrei, che: «Ci odieranno perché li abbiamo cacciati. Ci disprezzeranno perché li riammetteremo». Il diario di Bottai si presenta meno avaro di dettagli di quello di Ciano. A differenza di Ciano, egli, riferendosi a Federzoni, Balbo e De Bono, attenua di molto i toni della loro opposizione, gli ultimi due perplessi solo dell'eccessiva estensione delle categorie degli ebrei discriminati. Bottai descrive inoltre un Mussolini che «attacca con impeto polemico». Il capo del governo arriva a reclamare al suo antisemitismo antichi titoli, prima facendolo risalire addirittura al 1908 – «Si potrà , occorrendo, documentarlo», dichiara con enfasi -, poi ricordando, con un lungo salto nel tempo, il suo discorso di Bologna del 3 aprile 1921, in cui aveva già fatto riferimento a «questa nostra stirpe ariana e mediterranea». Tali accenni autobiografici sembrerebbero dare ragione a Giorgio Fabre, che in un recente lavoro, Mussolini razzista, fissa addirittura agli anni dieci, al Mussolini socialista, la conversione all'antisemitismo del futuro duce del fascismo.
La storiografia si chiede da almeno un paio di decenni se il razzismo sia stata una componente congenita del fascismo o solo un aspetto contingente e, tutto sommato, opportunistico? La posizione classica defeliciana, espressa dal grande storico del fascismo nella sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, faceva più o meno coincidere l'accostamento da parte di Mussolini a posizioni antisemitiche con il suo progressivo avvicinamento alla Germania nazista, s'era trattato insomma di una decisione dettata da esigenze tutte politiche, derivate dall'alleanza con Hitler. Il fascismo, fino ad oltre la metà degli anni trenta, risultò quindi immune dal virus razzista, tanto meno dall'antisemitismo. La ricerca storica più recente, espressa soprattutto dai lavori di Michele Sarfatti, respinge tuttavia queste conclusioni, asserendo che il razzismo, di cui l'antisemitismo era un aspetto, fu una componente organica della dottrina e della prassi fasciste. Naturalmente il dibattito è ben lontano dall'essere concluso. E' tuttavia difficilmente contestabile che forti preoccupazioni di carattere razzista sono evidenti in Mussolini già nel 1936, pochi giorni dopo la vittoriosa aggressione all'Etiopia, cioè quando erano ancora di là da venire i richiami della sirena nazista. A turbare i sonni di Mussolini sembrava essere allora la preoccupazione per la promiscuità facilmente prevedibile che vi sarebbe stata tra italiani e popolazioni etiopiche. L'11 maggio 1936, aveva infatti spedito questo significativo telegramma a Badoglio :«Per parare sin dall'inizio i terribili e non lontani effetti del meticcismo, disponga che nessun italiano militare o civile pu restare più di sei mesi nel vicereame senza moglie». Ma non s'era limitato a esprimere preoccupazioni. Con un decreto legge, aveva sanzionato penalmente qualsiasi rapporto tra «i cittadini italiani e i sudditi dell'Africa Orientale Italiana». Un successivo decreto prevedeva condanne fino a cinque anni di reclusione per qualsiasi «relazione d'indole coniugale con persona suddita». S'intendeva così colpire la pratica assai diffusa in colonia della convivenza more uxorio fra italiani e donne etiopiche, il cosiddetto madamato, che veniva in tal modo sanzionato come reato penalmente perseguibile, scorgendo nell'elevato numero di meticci concepiti da questi rapporti un danno all'integrità della razza italica. A sostegno di questa campagna era intervenuto Virginio Gayda, direttore del Giornale d'italia, uno degli intellettuali maggiormente attivi nella propaganda a favore della politica razziale. Le sue sconce considerazioni di carattere razzistico non apparvero solo sulle colonne del suo giornale, ma vennero affidate anche alle pagine di un opuscolo, La donna e la razza, compreso nell'opera collettanea Inchiesta sulla razza, curata da Paolo Orano, un altro bel campione di razzismo. Gayda non esitava ad esaltare la legge, poiché, a suo dire, impediva i danni che sarebbero inevitabilmente derivati dal numero crescente di meticci, i quali venivano da lui definiti «prodotti bastardi che sono una spaventosa peste per la civiltà spirituale e politica non meno che per quella economica e sociale». A Gayda veniva affidato anche l'aggiornamento per la Enciclopedia Italiana della voce "Razza: la politica fascista della razza". Insistendo sui danni della promiscuità e degli incroci, egli vi affermava che «il meticciato si è sempre rivelato, nell'esperienza di ogni paese coloniale, come uno sciagurato imbastardimento delle qualità originarie dei produttori». Quindi giusta si presentava, a suo parere, la legislazione fascista basata su «precisi principi di netta separazione», e volta alla inoculazione negli italiani di un «fiero senso della superiorità della loro razza che non deve essere contaminata e avvilita». È significativo che la dichiarazione della razza del 6 ottobre 1938, con cui si sanzionava la politica antisemitica, contenesse più generalmente il divieto agli italiani del matrimonio con individui appartenenti "alle razze camita e semita e altre razze non ariane". Forse la ricerca storica, abbandonando il vezzo della contrapposizione a tutti i costi, dovrebbe verificare con più attenzione quanti spazi il razzismo, messo in circolo nel nostro paese dalla conquista dell'impero, abbia offerto al regime per l'avvio di una politica antisemitica. Che fine fecero i dieci «scienziati» che firmarono il manifesto della razza del 14 luglio? Alla caduta del fascismo, la magistratura straordinaria nominata per epurare il Paese da chi si era eccessivamente compromesso col regime fascista, prese in esame la posizione dei firmatari del manifesto, tutti docenti universitari. I quali tuttavia, a riprova delle grandi difficoltà che l'antifascismo incontrò nel giudicare il passato fascista del paese, e come dimostra un saggio di Giovanni Sedita, che vedrà la luce a settembre su Nuova Storia Contemporanea, tornarono tutti a occupare le loro cattedre, talvolta accompagnati da un tributo di onori e riconoscimenti. In realtà , anche se il regime fascista aveva impedito a diversi firmatari, con varie minacce, di ricusare pubblicamente il testo definitivo del manifesto, questo dettaglio, come ha scritto De Felice, se non diminuisce la responsabilità morale di tutti i firmatari del manifesto, serve tuttavia a spiegare «come anche dei veri scienziati finirono per avallare di fatto un testo che sotto tutti i punti di vista, scientifico, politico e morale, rimane una delle cose più meschine e gravi del periodo fascista».
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