Israele – 60 anni: Il diritto di esistere
M[b]arco Paganoni
per NES n. 4, anno 20 – aprile 2008[/b]
A chi domanda come si possa negoziare con Hamas, che non riconosce lo Stato di Israele, Sergio Romano risponde dicendo che il diritto ad esistere di Israele è appunto la materia del contendere, per cui non può pretendere che venga concesso prima del negoziato (così al Tg de La 7 del 13.03.08): sarebbe come pretendere che gli interlocutori "arrivino nudi al tavolo delle trattative" (Corriere della Sera, 27.03.08).
Dunque ciò che è in discussione non è – come noi ci illudevamo – la legittimità come interlocutore di un movimento stragista, apertamente antisemita e dalla vocazione genocida qual è Hamas. Ciò che è in discussione è il diritto ad esistere dello Stato ebraico nato sessant'anni fa, in base a una decisione della Società delle Nazioni (1922) e delle Nazioni Unite (1947), sulla terra (come dice la Dichiarazione d'Indipendenza del 14 maggio 1948) dove "il popolo ebraico nacque", dove "si era formata la sua identità spirituale, religiosa e politica", dove "aveva vissuto una vita indipendente, creando valori culturali di portata nazionale e universale"; la terra verso cui "generazioni di ebrei erano tornate in massa, costruendo villaggi e città e creando una comunità in crescita, capace di gestire la propria economia e la propria cultura"; la terra dove il popolo ebraico aspirava al "diritto naturale di essere, come tutti gli altri popoli, indipendente nel proprio stato sovrano", a maggior ragione dopo aver subito la Shoà e aver "dato il proprio attivo contributo" alla lotta contro nazismo e fascismo. Dunque secondo Romano, lo Stato di Israele, già da tempo riconosciuto dalla stragrande maggioranza dei governi e dei popoli, deve ancora guadagnarsi il diritto di esistere.
La brutta notizia è che probabilmente ha ragione. "Il punto da capire – si legge in un editoriale del Jerusalem Post (24.03.08 ) – è se il conflitto ruoti intorno alla questione dei confini o a quella dell'esistenza. Se è sui confini, allora si tratta di premere sulle parti perché arrivino a un accordo negoziato. Se invece al cuore della questione c'è ancora un rifiuto di accettare Israele entro qualunque confine, allora il vero ostacolo che blocca la pace è questo rifiuto, e non il presunto rifiuto da parte di Israele di uno stato palestinese".
D'altra parte, se così non fosse, se fosse solo questione di concordare un confine tra Israele e stato palestinese, come si potrebbe spiegare la rabbiosa aggressività anti-israeliana di un movimento libanese, e non palestinese, come Hezbollah? Come si potrebbero spiegare i virulenti sermoni e le apocalittiche minacce anti-israeliane di un regime iraniano, e non arabo, come quello di Mahmoud Ahmadinejad? Come si potrebbe spiegare lo stolido rifiuto dei leader sauditi e di altri stati arabi di incontrare i leader israeliani quando il presidente palestinese Abu Mazen li incontra normalmente? E come si potrebbe spiegare il rifiuto arabo del 1948 e la conseguente ventennale occupazione araba di territori palestinesi?
Chiunque frequenti anche solo di sfuggita la pubblicistica del nazionalismo palestinese, del revanscismo anti-israeliano e dei loro innumerevoli sodali in giro per il mondo, può facilmente constatare che la rappresentazione grafica – ufficiale e ufficiosa, pervasiva e martellante – della mappa delle rivendicazioni territoriali arabe prevede sempre e costantemente la totale cancellazione di Israele. Chi detesta l'esistenza stessa di Israele e vuole tutta la terra, perché mai dovrebbe negoziare un ritiro israeliano dai territori, oggi che Israele si è già ritirato dalla striscia di Gaza e ha già accettato la soluzione due popoli-due stati? Ecco perché, oggi, al centro della polemica anti-israeliana non figura più tanto il reato di "occupazione", cui anche gli israeliani vorrebbero porre fine, bensì l'accusa di "apartheid". La denuncia di un'occupazione, nota Sever Plocker (YnetNews, 3.01.08), evoca naturalmente il ritiro dell'occupante all'interno dei suoi confini, quali che siano. Viceversa, la denuncia di un apartheid invoca automaticamente un ribaltamento istituzionale. L'occupazione si risolve spartendo il territorio fra due stati; un regime di apartheid non si risolve spartendo la terra, si risolve capovolgendo gli assetti di potere.
I nemici d'Israele hanno tentato invano di distruggere la sovranità ebraica in Medio Oriente con mezzi militari, economici, propagandistici, diplomatici, terroristici. Ora, a sessant'anni dalla quell'indipendenza legalmente proclamata e strenuamente difesa, vorrebbero vendere a Israele qualcosa di cui semplicemente non dispongono: il diritto ad esistere come stato sovrano e democratico, sede nazionale del popolo ebraico. E tirano anche sul prezzo.
Come disse Abba Eban nel lontano 1981, nessuno fa un favore a Israele proclamando il suo diritto ad esistere. Il diritto ad esistere di Israele c'è come c'è quello degli Stati Uniti, dell'Arabia Saudita e degli altri 190 stati del mondo. La legittimità di Israele non è sospesa a mezz'aria in attesa che un re saudita, un rais arabo (o palestinese) o un autocrate musulmano la concedano graziosamente. Di certo, concludeva Abba Eban, nessuno stato, piccolo o grande, giovane o antico, accetterebbe di considerare il riconoscimento del suo diritto ad esistere come una concessione da pagare a caro prezzo. Tutto si può discutere, ma l'esistenza di Israele non è materia di negoziato, ed è da lì che si deve partire.
Nella foto in alto: L'irredentismo anti-israeliano nella pubblicistica arabo-palestinese: "La Palestina sarà libera dal fiume al mare".
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