Enzo Bettiza ricorda Francois Fejto
[i]Aveva 98 anni [b]François Fejtö[/b] era nato nel 1909 in Ungheria, a [b]Nagykanizsa[/b], da famiglia ebrea. Incarcerato due volte dal regime di Horthy, fuggì poi in Francia e combattè nella Resistenza. Dal 1955 era cittadino francese. Tra i suoi libri [b]Storia delle democrazie popolari, Gli ebrei e l'antisemitismo nei paesi comunisti, Requiem per un impero defunto, La fine delle democrazie popolari, Dio, l'uomo e il diavolo- Meditazioni sul male della stora. [/b][/i]
[b]Presentì il crollo del Muro[/b]
[i][b]di Enzo Bettiza[/b][/i]
(Fonte: [b]La Stampa[/b] citata da )
Fejtö e io abbiamo fatto facilmente amicizia, aiutati com’eravamo da un comune retaggio austroungarico: i nostri padri e antenati erano tutti cittadini poliglotti dello stesso impero danubiano. Col tempo, oltre che amici fraterni, siamo diventati anche stretti collaboratori. Allorché nel 1974 venni coinvolto da Montanelli nella fondazione del Giornale, mi recai, in veste di condirettore, a Parigi con lo scopo di crearvi un polmone culturale in sintonia con il quotidiano liberale che stavamo per pubblicare in un’Italia avviata al cattocomunismo di Stato. Avevo in mente un’idea e un progetto: affidare a Fejtö, che aveva appena lasciato da pensionato l’Agence France Presse, l’incarico di costruire e gestire la nostra sede parigina.
Dopo qualche giorno l’autorevole letterato e storico, da sempre legato alla migliore intelligencija francese, si installava in rue Tronchet, nei pressi della Madeleine. Una piccola stanza frastornata dalla telescrivente, alla quale Fejtö, assistito da una segretaria veneziana perfettamente bilingue, avrebbe conferito per molti anni il peso e il lustro della fucina internazionale del quotidiano fondato da Montanelli e da me. Rue Tronchet sarebbe diventata difatti la palestra italiana di insigni maîtres-à -penser liberali, Aron, Ionesco, Revel, Furet, tanto per citare i più illustri. François fece confluire inoltre, accanto ai grandi parigini, una pleiade di dissidenti russi, polacchi, cechi, slovacchi, romeni e naturalmente ungheresi. Alle novità politiche, economiche e culturali della sua terra d’origine lo stesso Fejtö avrebbe dato, con i suoi scritti, un contributo puntuale e analitico che superava quello dei più informati giornali europei. Insieme con il dalmata Frane Barbieri, inventore del termine «eurocomunismo», avrebbe formato una coppia luminosa nel corpo del nostro quotidiano.
In effetti, l’analisi e la descrizione degli eventi nuovi dell’Est europeo sgorgavano sempre più penetranti dalle loro penne esatte come compassi. Mano a mano che il «modello Kádár», dopo la sanguinosa repressione del 1956, andava avvicinandosi agli appuntamenti decisivi del Novecento, Fejtö ne metteva in luce i punti d’attrazione che ne costituivano al tempo stesso i punti di maggiore vulnerabilità . Dopo il 1985, anno d’avvio del crepuscolo gorbacioviano, l’analista non vedrà più nel «modello ungherese» un patto di convivenza passiva ma, piuttosto, un precario patto di non aggressione tra un regime in declino e una società in crescente risveglio. Percepirà il tuono del futuro già in arrivo dall’imminente 1989. Scorgerà la società recuperare spazi d’autonomia sempre più consistenti. Descriverà il popolo che non sente più le parole del partito. Ausculterà il suono delle lingue che ricominciano a sciogliersi.
Quando alfine scoppierà il tuono, facendo crollare col muro di Berlino i regimi svuotati dell’Est, vedremo un vitale ottuagenario uscire da rue Tronchet e poi decollare, con un aereo di Stato, da una base militare francese verso la terra natia. Sarà il trionfale ritorno in patria, dopo oltre mezzo secolo di latitanza forzata, dell’esule Fejtö; egli scenderà a Budapest dall’aereo a fianco del presidente socialista Mitterrand di cui era consigliere e suggeritore per le questioni dell’Europa centrorientale. L’Ungheria, al cui riscatto d’immagine e di verità il più attendibile storico della rivoluzione del 1956 aveva contribuito in prima persona, celebrerà il fedele compatriota restituendogli, con la stima, anche la cittadinanza che gli era stata tolta dal regime defunto.
L’ultima volta che lo vidi fu qualche anno fa a Parigi. Andammo da Lipp a mangiare gigot e ostriche belon, di cui era molto ghiotto. Stava scrivendo un libro di memorie e il titolo gliel’aveva suggerito una sua nipotina di otto anni. Gli aveva chiesto: nonno, dove va il tempo che passa? Quello fu il migliore dei titoli possibili. Où va le temps qui passe?
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