[b]07.03.2008 Le interviste a Elie Wiesel e al rabbino Arthur Schneier, le analisi di Arrigo Levi e Lucio Caracciolo
sulla strage di Gerusalemme[/b]

Testata:Corriere della Sera – La Stampa – La Repubblica
Autore: Alessandra Farkas – Maurizio Molinari – Arrigo Levi – Lucio Caracciolo
Titolo:
-««Anch'io allevato in una yeshiva Mi sono sentito uno di loro»
– Da generazioni la scuola simbolo dell’ebraismo
– Attentato a un simbolo
– La coscienza dell'odio»

[b]Segnaliamo, tra i commenti alla strage del collegio rabbinico di Gerusalemme, le parole di Elie Wiesel, pronunciate nell'intervista concessa ad Alessandra Farkas, pubblicata dal CORRIERE della SERA.
Con semplicità ed essenzialità, Wiesel spiega tutto il particolare orrore di questo attentato e la sua continuità con la storia dell'antisemitismo.
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Ecco il testo:

[b]NEW YORK[/b] — «Anche se tutti gli attacchi terroristici sono intrisi di strazio e orrore, questo passerà alla storia come uno dei peggiori». Elie Wiesel, il grande scrittore sopravvissuto ad Auschwitz e Premio Nobel per la pace nel 1986, ha appreso la notizia dell'attentato al collegio rabbinico di Gerusalemme dalla radio, mentre si recava in taxi all'aeroporto. «È stato l'ennesimo tuffo al cuore, ma ancora più pungente e doloroso del solito », racconta al telefono il 79enne Wiesel, la voce rotta dalla commozione. «Un tuffo nel passato».
Immagino si riferisca ai suoi trascorsi di studente rabbinico in una yeshiva della Transilvania, di cui parla nel suo capolavoro del 1958 «La Notte»?
«Sì. Anch'io da piccolo ho frequentato la scuola religiosa per ragazzi, prima che Hitler e il nazismo spezzassero per sempre il mio sogno di diventare rabbino, come i miei nonni. Oggi mi sono identificato completamente in quei ragazzi trucidati. Mi sono sentito uno di loro».
Che cosa ricorda degli anni alla yeshiva?
«Ricordo i ripassi metodici e ripetitivi dell'alfabeto ebraico, Alef, Bet, Gimel. Ricordo le peot, i lunghi capelli ai lati del volto che anch'io avevo, nella tradizione degli ortodossi chassidici. Ricordo le grandi stanze immerse nella penombra, il silenzio, la meditazione. Ricordo lo studio del Talmud, una passione che mi ha accompagnato fino a oggi».
Si è chiesto il perché di questa mattanza?
«Non esiste un perché. Entrare nel sacro tempio del sapere, dove giovani vulnerabili e innocenti non fanno null'altro che studiare e pregare, soltanto per ucciderli, è la prova che il nemico è disposto a oltrepassare i limiti dell'umanità. Sono forse uomini quelli?».
L'attentato alza il livello dello scontro?
«Di certo dimostra che il presidente palestinese Abu Mazen non riesce a controllare il suo stesso popolo. Se ciò è vero, come pare ormai chiaro, cosa dovrebbe fare Israele?».
La sua risposta?
«Nessun Paese al mondo permetterebbe mai a dei killer di penetrare impunemente nelle sue scuole per assassinare, ferire, azzoppare e storpiare giovani innocenti. Israele non può non difendersi da questi continui attacchi».
Perché hanno colpito proprio quel bersaglio?
«Perché da sempre i nemici del popolo ebraico prendono di mira scuole e sinagoghe. Nel Medioevo, così come durante l'occupazione nazista dell'Europa, i luoghi di culto, studio e preghiera furono i primi a essere bersagliati. E, immancabilmente, i primi a essere distrutti. Penso che chi ha colpito sia animato dallo stesso odio che infiammava i criminali nazisti».
Di chi è la colpa?
«La risposta la darà l'indagine che dovrà cercare di scoprire soprattutto l'identità dei maestri di quei terroristi suicidi. Chi ha instillato nelle loro menti un odio tanto profondo da indurli a compiere quel gesto di inenarrabile crudeltà è altrettanto colpevole. Perché non ci sono parole per definire questi orrori».
Pensa che la responsabilità sia di Hamas?
«Hamas è a Gaza, non in Cisgiordania. Non credo sia stata necessariamente Hamas. Cercherei anche e soprattutto altrove».
E adesso?
«La priorità per Israele e il resto del mondo è combattere i terroristi suicidi che non sono nient'altro che criminali contro l'umanità. Il loro operato è pericoloso specialmente adesso, quando abbiamo bisogno di tutta la buona volontà del mondo per rinnovare i negoziati tra Israele e palestinesi. Che non possono né devono fermarsi».

[b]Da La STAMPA un'intervista di Maurizio Molinari al rabbino Arthur Schneier:[/b]

Arthur Schneier, rabbino della sinagoga di Park East, conosce bene la yeshivà, scuola religiosa, «Mercaz Ha-rav» di Kiryat Moshe a Gerusalemme: vi è stato, vi ha studiato e insegnato. «Non è qualcosa di particolare – spiega -, perché chiunque studia materie religiose ebraiche prima o poi passa per il Mercaz Ha-rav». La notizia dell’attacco terroristico lo raggiunge mentre è alla Park East Synagogue assieme ai suoi giovani studenti.
Che cosa rappresenta la yeshivà «Mercaz Ha-rav»?
«È soprattutto un luogo di studio, dove gli studenti religiosi di tutto il mondo si recano per periodi più o meno lunghi per approfondire la conoscenza delle materie ebraiche, a cominciare dall’importanza della vita umana».
Quali sono i valori che condividono coloro che come lei sono passati attraverso la «Mercaz Ha-rav» di Gerusalemme?
«La passione per il sapere, la scelta di dedicavi la vita e, in particolare, la volontà di approfondire il concetto di Tikkun Olam, la riparazione del mondo, ovvero cosa i singoli esseri umani possono fare per rendere il mondo un posto migliore, per riparare ai danni che sono stati fatti. Lo studio del Tikkun Olam è un’architrave della conoscenza e ha a che vedere con l’importanza della responsabilità personale: delle azioni, buone o cattive, che ognuno di noi compie causando conseguenze per gli altri».
Che cosa ha pensato quando ha saputo dell’attentato?
«Ho pensato al fatto che i nichilisti contemporanei, i terroristi autori di questo gesto terribile, sanguinoso, efferato hanno portato la morte in un luogo deputato allo studio, all’approfondimento della Bibbia, dei testi rabbinici che celebrano l’importanza assoluta della vita umana. È un momento orrendo che ci ricorda come al mondo vi sia chi ama profondamente la vita e chi invece disprezza la propria fino al punto da volerla adoperare per distruggere quella degli altri. Chi uccide disprezza la vita come lo studio perché crede in maniera assoluta nella forza. Mi è capitato di riflettere su questi temi anche quando andai a partecipare ai funerali delle vittime degli ultimi attentati di Istanbul».
In alcune reazioni di parte araba c’è però chi ha indicato nella yeshivà colpita un centro di leader religiosi favorevoli agli insediamenti nei Territori palestinesi, suggerendo che potrebbe esserci una giustificazione politica per l’attentato compiuto…
«Nessuna ragione è valida per distruggere una singola vita umana. Giustificare in qualsiasi maniera l’atto orrendo di uccidere significa disprezzare la creazione del mondo. Come dice la sua stessa denominazione “Mercaz Ha-rav” significa “centro di studi ebraici”, qualcosa di simile a una grande università del sapere religioso attraverso le cui aule passano e sono passati migliaia di studenti da tutto il mondo. È contro questo sapere, e contro i giganti della conoscenza che l’hanno creato e conservato di generazione in generazione, che è stata commessa la strage. Non mi sorprenderebbe se fra i morti o i feriti dovessero esservi giovani giunti dall’estero: “Mercaz Ha-rav” è da decenni un luogo dove gli studenti arrivano da ogni angolo della Terra».

[b]Sempre dalla STAMPA, l'analisi di Arrigo Levi che si chiude proponendo l'invio di una forza di interposizione internazionale a Gaza.
Una proposta che certo non potrebbe costituire una risposta agli ultimi eventi: l'attentatore di Gerusalemme era infatti un arabo-israeliano o un residente a Gerusalemme Est.
Più realistica la seguente considerazione di Levi:[/b]

Trovo un po’ ipocrita la distinzione fra una reazione «eccessiva», da condannarsi, e una reazione commisurata alla minaccia, che sarebbe giustificata. Ricordate un missile libico lanciato tempo fa contro l’isola di Lampedusa? Che cosa avrebbe fatto l’Italia se a quel lancio ne fossero seguiti molti altri, giorno dopo giorno, raggiungendo obiettivi sempre più vicini al cuore del Paese?

[b]Ecco il pezzo completo:[/b]

L’attentato alla Yeshivà, o scuola rabbinica di Kiriat Moshè, a Gerusalemme Ovest (la nuova Gerusalemme ebraica sorta al di fuori delle mura della «Città Santa») è un attentato di natura più «militare», per il modo in cui è avvenuto, che terroristica.
Non c’è stato un kamikaze votato al sacrificio, che si sia fatto saltare in aria per raggiungere il suo paradiso, ma una pattuglia armata, che ha scelto però, come bersaglio, non una postazione militare israeliana ma una scuola rabbinica, degli studenti intenti, come vuole l’antica tradizione, a meditare e dialogare sulla loro fede.
Ambedue le caratteristiche accentuano e mettono in maggiore evidenza quello che è stato lo scopo di questa impresa, di cui non conosciamo con certezza, nel momento di scrivere, i diretti responsabili. Ma l’obiettivo che si è voluto raggiungere è più che evidente: mandare a monte le speranze di una ripresa del negoziato di pace che dovrebbe condurre, entro l’anno (ma chi può ancora sperarlo?) alla nascita di uno Stato palestinese accanto allo Stato d’Israele.
Il lancio di missili sempre più potenti e precisi contro città israeliane dalla striscia di Gaza, che Israele aveva evacuato per volontà di Sharon, capace d’imporre con la forza militare l’esodo di migliaia di coloni, ed ora l’attacco militare alla scuola rabbinica, esprimono una linea politica ben precisa: impedire un negoziato capace di condurre alla nascita di uno Stato palestinese che firmi un trattato di pace con lo Stato d’Israele.
Questa è la linea di Hamas, è la linea dei fondamentalisti islamici libanesi, è la linea dell’Iran, è la linea di Al Qaeda: di tutti coloro, insomma, che nel mondo arabo e islamico dichiarano la loro aperta intenzione di cancellare lo Stato ebraico dalla faccia della terra: di cacciare gli Ebrei dalla «terra dell’Islam»: come ne furono cacciati, in un spazio di tempo di due secoli, i regni crociati.
Che questa non sia la volontà del popolo palestinese non ha, per gli autori di questo attacco, alcuna importanza. Inseguono una loro chimera, una loro visione della storia e del mondo, che può a noi apparire assurda: ma tante tragedie del passato, anche recente, anche nella nostra Europa, sono nate da fatali visioni, altrettanto assurde.
È a tutti ben noto (lo confermano innumerevoli sondaggi, effettuati da istituti di ricerca della Palestina) che una maggioranza dei palestinesi residenti sia nella West Bank che nella striscia di Gaza è, da molto tempo, favorevole alla pace con Israele: che vuol poi dire alla nascita di un loro Stato, come avrebbe voluto la risoluzione dell’Onu che permise, nel maggio del 1948, la nascita di uno Stato d’Israele, che l’aggressione degli Stati arabi confinanti, che annunciavano l’intenzione di compiere una strage senza precedenti nella storia, non riuscì ad impedire. Per Israele, la creazione di uno Stato palestinese è importante, come suprema e definitiva garanzia della sopravvivenza del loro Stato, non meno di quanto lo sia per i Palestinesi: di ciò è convinta una maggioranza degli Israeliani, come dei Palestinesi – che vorrebbero diventare finalmente padroni del loro destino di popolo.
La scelta, come obiettivo dell’azione che ha provocato la strage di Gerusalemme, di una scuola rabbinica, è chiaramente finalizzata ad accrescere la resistenza al negoziato di pace di quella parte della popolazione israeliana (particolarmente forte nell’elettorato «religioso») che teme che il negoziato, e gli accordi a cui esso potrebbe portare, accrescano, e non riducano, la minaccia alla sopravvivenza del loro Stato.
Per impedire la pace, si moltiplicano le aggressioni a Israele. Si vuole mettere così in moto un meccanismo di azione-reazione quasi inevitabile e inarrestabile. E addio speranze di pace. Quale Stato potrebbe accettare, senza dare una qualche risposta anche militare, un continuo lancio di missili contro le proprie città da un territorio confinante? Trovo un po’ ipocrita la distinzione fra una reazione «eccessiva», da condannarsi, e una reazione commisurata alla minaccia, che sarebbe giustificata. Ricordate un missile libico lanciato tempo fa contro l’isola di Lampedusa? Che cosa avrebbe fatto l’Italia se a quel lancio ne fossero seguiti molti altri, giorno dopo giorno, raggiungendo obiettivi sempre più vicini al cuore del Paese?
Confesso di non sapere se sia possibile interrompere questo tremendo giuoco di guerra, continuamente rinnovato da chi vuole che non si faccia la pace, da chi ha per solo scopo la distruzione d’Israele, quale che sia il costo per il popolo palestinese. È troppo ingenuo l’auspicio che intervenga sul terreno, che vuol poi dire a Gaza, una forza militare d’interdizione autorizzata dalle Nazioni Unite, capace d’impedire ulteriori aggressioni contro Israele, e la reazione militare israeliana che ne consegue?
C’è, anche grazie all’iniziativa italiana, una forza militare presente, finora con efficacia, nel Sud del Libano. Perché non a Gaza? Al di là di quello che può accadere nell’immediato futuro (e non possiamo non auspicare che la reazione d’Israele non sia di ritirarsi dal negoziato di pace, che bene o male stava per ripartire: si farebbe solo il giuoco dei nemici d’Israele), non è forse giunto il momento che le Nazioni Unite promuovano iniziative concrete per imporre la cessazione dello stillicidio di attacchi missilistici contro Israele?

[b]Per Lucio Caracciolo il terrorismo è originato da "le umiliazioni e le vessazioni subìte dal 1948 a oggi" dai palestinesi, naturalmente ad opera di Israele.
E le stragi anitiabraiche del 1929 e del 1936 da cosa erano causate ? E la stessa guerra per buttare a mare gli ebrei nel 1948 ? In realtà, il terrorismo è causato dalla volontà di estirpare la presenza ebraica in Medio Oriente, e le sconfitte dei palestinesi dal fatto che gli israeliani si sono difesi e non hanno accettato di farsi massacrare. Quando porranno fine alle loro guerre di aggressione, i palestinesi porrano fine anche alle loro sofferenze.
Una verità troppo poco politicamente corretta perché Lucio Caracciolo la scriva.
Ecco il testo completo del suo articolo, pubblicato da REPUBBLICA:[/b]

In Medio Oriente i pessimisti hanno quasi sempre ragione. L´orrendo attentato di ieri sera a Gerusalemme conferma lo scetticismo di quanti hanno sempre pensato che il "processo di Annapolis" fosse fumo. L´ennesimo esercizio diplomatico-mediatico totalmente estraneo alla realtà del terreno. E la realtà è che Israele si appresta a celebrare il sessantesimo anniversario della fondazione sotto il fuoco degli attentati nel cuore della sua capitale, dei razzi lanciati da Gaza verso Ashkelon e dintorni, delle incursioni terrestri contro la Striscia appena abbandonata e subito conquistata da Hamas. Se non è guerra aperta, poco ci manca.
Il Muro non basta a fermare il terrorismo palestinese. Non vi sono misure di sicurezza che possano garantire l´impenetrabilità di Israele. Né d´altra parte si può immaginare che Gerusalemme accetti di convivere con l´Hamastan alle sue porte. I leader israeliani sono alle prese con l´incompatibilità dei loro due obiettivi strategici: consolidare Israele come Stato degli ebrei e mantenere il controllo dei Territori palestinesi.
Il primo precetto nasce dal vincolo demografico: nel giro di pochi anni la somma dei palestinesi abitanti a Gaza e in Cisgiordania, più gli arabi israeliani, sarà nettamente superiore al totale degli ebrei. Se manterrà la presa su Giudea e Samaria, Israele rischierà di scivolare verso lo Stato binazionale. Un´improbabile macedonia arabo-ebraica che annienterebbe l´opera di generazioni di sionisti. Il Grande Israele è la morte di Israele. Lo sanno bene anche gli ultranazionalisti, per i quali occorre costringere i palestinesi ad arrendersi all´idea che il loro Stato si farà, semmai, oltre il Giordano. Ipotesi piuttosto avventurosa, quanto meno perché prevede un biblico trasferimento di popolazioni, oltre al crollo del regime di Amman. La seconda necessità deriva dalla coscienza dell´odio accumulato nei palestinesi, non importa di quale colore politico o religioso, dopo le umiliazioni e le vessazioni subìte dal 1948 a oggi. Una rabbiosa disperazione che induce i propositi più efferati, e sta radicando l´antiebraismo in modo indelebile nella popolazione araba della regione. Ma nessun esercito – tanto meno lo Tsahal attuale, assai meno motivato e ardimentoso di quello dei pionieri – può tenere in eterno sotto il proprio assoluto dominio una popolazione nemica. Più passano gli anni, più traspare la demoralizzazione di ufficiali e soldati costretti a fare i secondini di un popolo che non li tollera, anche se li teme.
Sicché i leader israeliani inclinano periodicamente verso l´una o l´altra priorità, senza potersi o volersi decidere. In più, oggi tutti sentono odore di elezioni e si profilano di conseguenza. A cominciare da Barak, che tiene molto a conquistarsi sul terreno di Gaza la fama di neo-falco. Per finire con Olmert, il più impopolare premier della storia dello Stato ebraico, che non vorrebbe essere ricordato dai posteri per tale primato, dopo aver già perso l´ultima campagna di Libano.
Sul fronte palestinese il quadro è ancora più sconfortante. Un popolo senza capo. Allo sbando. Abu Mazen è figura patetica, incapace di affermare una parvenza di autorità oltre il perimetro del suo quartier generale (anzi nemmeno in quello). I leader di Hamas – un´organizzazione sempre meno coesa, attraversata da lotte di clan e segnata dalle influenze esterne – sono asserragliati nella gabbia di Gaza e non riescono a uscirne. L´unico leader carismatico che potrebbe forse riunificare il campo palestinese, Marwan Barghuti, è ristretto nelle carceri israeliane, dove peraltro riceve un trattamento di riguardo: gli israeliani si riservano di giocare la carta Barghuti all´ultimo momento, se mai decideranno di aprire un serio negoziato di pace con il nemico. Per ora, non pare. Comunque, senza un interlocutore non si può trattare. E la furbizia di Sharon, che voleva negoziare con se stesso, non funziona più.
In un altro momento, gli Stati Uniti avrebbero potuto esercitare una certa pressione su entrambi i contendenti, soprattutto sui loro amici israeliani. Ma oggi Bush non ha l´autorità per dirimere la disputa. E l´opinione pubblica americana è concentrata sulle elezioni di novembre. Bisognerà probabilmente attendere il verdetto di quel voto per sperare che da Washington un nuovo, autorevole e coraggioso presidente si decida a smentire i pessimisti, imponendo quella pace che i belligeranti, oggi, non riescono nemmeno a immaginare.

 

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