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[b]Un articolo di Stefano Magni[/b]
[b]pubblicato su L'opinione del 14 novembre[/b]

Nel corso delle manifestazioni per celebrare l’anniversario della morte di Arafat, la polizia spara sulla folla (250.000 persone sotto le bandiere di Al Fatah) a Gaza, fa sette morti e un centinaio di feriti, poi partono le retate nelle abitazioni: quattrocento militanti di Al Fatah arrestati arbitrariamente e incarcerati.

Fosse stata Israele a condurre un’operazione caratterizzata da questo livello di brutalità, oggi la diplomazia europea sarebbe in fermento per chiedere sanzioni contro lo Stato ebraico. L’Onu, con tutta probabilità, avrebbe già emesso una risoluzione di condanna nelle quarantotto ore successive alla crisi. Ma non è successo niente di tutto questo, perché la repressione è opera dei palestinesi di Hamas, non di Israele. Ed è avvenuta proprio in occasione delle celebrazioni dell’anniversario della morte di Arafat, il “padre della patria” palestinese. Fra gli arrestati, il cui numero (400) è paradossalmente uguale a quello dei prigionieri palestinesi che dovrebbero essere prossimamente liberati da Israele, figurano gli organizzatori del corteo in onore ad Arafat. Secondo Mohammed Dahlan, ex responsabile della sicurezza di Gaza, fedele alla fazione di Abu Mazen, si devono organizzare altre manifestazioni, per “accorciare il periodo di sofferenza del popolo palestinese e la vita di questo partito sanguinario”. Persino il piccolo movimento terrorista Jihad Islamica, distintosi per essere ancor più violento contro Israele rispetto allo stesso Hamas, ha condannato la violenza della polizia di Gaza. Gli stessi terroristi che hanno sempre rivendicato i lanci di razzi contro le scuole israeliane per uccidere i bambini, ieri hanno dichiarato: “Nonostante tutte le divisioni politiche, è inammissibile sparare indiscriminatamente su una folla di manifestanti”.
Già in molte altre occasioni, su questo giornale, abbiamo parlato della violenza intra-palestinese che provoca più vittime rispetto alla violenza tra palestinesi e israeliani. I picchi di peggior brutalità si sono raggiunti nella piccola guerra civile a Gaza che ha portato al potere Hamas l’estate scorsa, che ha provocato 350 morti e più di 2000 feriti. Molti dei quali vittime delle torture dei carnefici di entrambe le fazioni in lotta. Quest’ultimo caso è particolarmente significativo: la strage e gli arresti avvengono alla vigilia della conferenza di Annapolis, in cui la Palestina aspira ad ottenere definitivamente il riconoscimento della propria indipendenza. Verrebbe da chiedersi, a questo punto: quale delle due parti in cui è divisa la Palestina? La Gaza di Hamas che spara sui manifestanti di Al Fatah, o la Cisgiordania di Al Fatah che ha già provveduto ad arrestare tutti i membri di Hamas? Le due fazioni non hanno trovato un accordo. Hanyie, leader di Hamas ha tentato di ottenerlo, ma solo per aver riaperto il dialogo con Abu Mazen, leader di Al Fatah, è stato bersagliato di critiche dall’ala dura del partito, capitanata da Khaled Meshal (da Damasco) e dal responsabile agli esteri Al Zahar. D’altra parte, il partito islamista che comanda a Gaza, pur rivendicando attentati e lanci di razzi contro i civili israeliani, negli ultimi due mesi lamenta il “terrorismo” e l’“insorgenza” che verrebbero alimentate da Al Fatah.
Nel frattempo continuano i lanci di razzi Qassam contro la regione del Negev occidentale, per uccidere civili israeliani. E’ ovvio che, in questo scenario, Gerusalemme si stia preparando al peggio: per la settimana prossima è stata annunciata un’esercitazione militare nel teatro di guerra orientale, per prepararsi a un’eventuale ondata di attentati dalla Cisgiordania. E’ altrettanto ovvio che pochi sperino in una soluzione definitiva del conflitto mediorientale dopo la prossima conferenza di Annapolis.

 

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