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[size=14][b]Da La REPUBBLICA del 26 novembre 2007, un'intervista di Susanna Nirenstein allo storico israeliani Benny Morris
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«La Risoluzione Onu n. 181 del 29 settembre 1947, esattamente 60 anni fa, stabiliva la spartizione della Palestina in due Stati sovrani, uno ebraico e uno arabo. Gli arabi la rifiutarono e la guerra che scaturì dal quel rigetto ebbe un´anima jiadista che ha una continuità con il fondamentalismo islamico di oggi».

Ecco, Benny Morris, ancora una volta spariglia le carte e toglie al conflitto che cambiò la faccia del Medio Oriente, l´aura di puro conflitto territoriale. Il primo grosso sconcerto si era creato negli anni Ottanta, quando Morris aveva affermato che gran parte dei 700 mila profughi palestinesi erano stati cacciati dagli israeliani, e non andati via in risposta all´appello della leadership araba, accusando di fatto Israele di un contestato "peccato originale". Lo scandalo, cambiando totalmente di segno, si era ripetuto pochi anni fa, quando Morris scrisse che quella espulsione aveva il solo torto, ai fini della pacificazione dell´area, di non essere stata più radicale.
La schiettezza di Morris è fuor di dubbio. Anche il suo ultimo libro pone nuovi inquietanti interrogativi. Appena uscito in anteprima mondiale in Italia, La prima guerra di Israele. Dalla fondazione al conflitto con gli Stati Arabi 1947-1949" (Rizzoli, pagg. 647, euro 25), certo non ci risparmia nuove testimonianze dolorose sull´estromissione dei palestinesi, le distruzioni dei loro villaggi, né su alcuni eccidi commessi dagli ebrei quanto su quelli compiuti dai loro nemici questa volta accompagnati da feroci smembramenti dei corpi; ma la parte più cocente sta nelle conclusioni, quando Morris stabilisce senza tentennamenti quanto lo spirito della jihad sia stato importante per il fronte arabo, guidato allora come oggi da un sentimento di rifiuto radicale verso l´esistenza dello Stato ebraico che non prevede né concessioni né mediazioni. A 60 esatti dalla Risoluzione Onu 181, a quasi sessant´anni dalla nascita di Israele che cade nel 2008, l´abbiamo intervistato.
Professor Morris, quella del ‘48 è stata una guerra santa?
«Non solo: ebbe i tratti di una jihad, di un conflitto culturale. E naturalmente politico».
Una risposta a quel che percepivano come un´invasione colonialista?
«Non volevano uno stato ebraico. Non importava se dietro ci fosse o meno una potenza coloniale».
Su cosa basa questa affermazione?
«Molti leader politici e religiosi parlarono di un´invasione di infedeli a cui bisognava reagire con la jihad. Non si trattava della presa di possesso di una parte del territorio palestinese a opera di un altro popolo: gli infedeli occupavano una terra islamica, e questo per l´Islam era intollerabile».
Una guerra santa simile agli jihadismi attuali?
«Gli jihadisti di oggi pensano di combattere in difesa dell´unica verità, quella di Allah, contro l´Occidente che invade i loro territori con truppe e cultura. La stessa cosa avvenne nella Palestina del ‘48: i palestinesi e gli arabi lanciarono una jihad, considerandola non una guerra d´attacco, ma di difesa contro un´invasione degli infedeli. Ecco perché spesso i leader arabi nel ‘48 paragonarono i sionisti ai crociati».
Crede che anche oggi non accettino l´idea di uno stato ebraico?
«La domanda oggi è più complicata dalla dissimulazione che gli arabi adottano. Penso che in generale rifiutino la legittimità di Israele tanto quanto allora, e siano convinti che prima o poi scomparirà. Alcuni pensano che Israele ora sia troppo forte e sia meglio rimandare l´attacco alle generazioni future. Altri, come Ahmadinejad, invece vogliono occuparsene subito. Questioni di tattica».
E i moderati?
«Non so cosa si intenda per moderati. Gente che tortura gli oppositori politici e non accetta il multipartitismo? In fondo sono tutti dittatori. Tra moderati ed estremisti non vedo grandi differenze».
Lei ha scritto tre libri sulla Guerra d´Indipendenza in 30 anni. Perché insiste? Cosa cerca, e cosa ha trovato?
«Non insisto su niente. Il 1948 rappresenta una grande rivoluzione che ha cambiato drammaticamente il Medio Oriente. È come il 1789 per gli storici francesi, o il 1917 per i russi. E poi è il mio anno di nascita, ecco un´altra ragione».
Il suo saggio si sofferma molto sulle atrocità commesse da Israele, ne svela di nuove. Eppure gli ebrei dell´yishuv, la comunità insediata in Palestina, erano intrisi di ideali di giustizia: da dove venne questa brutalità?
«È stata una questione di autodifesa. Gli ebrei in Palestina nel ‘48 erano 650 mila. Avevano intorno il doppio di palestinesi e gli arabi erano più di cinquanta volte tanto. Hanno dovuto combattere per sopravvivere. Io però farei una distinzione. Non considero espulsioni e distruzioni dei villaggi, atrocità. Sono state misure militari necessarie per difendere il territorio che stava per essere invaso. Se avessero fatto diversamente non avrebbero mai potuto vincere. I massacri e quella decina di stupri, invece, sono sicuramente dei crimini, come avvengono in tutte le guerre. Ma il totale delle nefandezze commesse dagli ebrei è molto inferiore a quello di altri conflitti: pensi ai Balcani. A Srebrenica i serbi hanno ucciso 9.000 persone in due giorni: in Palestina, in un intero anno di una guerra scatenata dagli arabi, gli ebrei uccisero in totale 800 tra civili e prigionieri».
Gli arabi si sono comportati meglio?
«Hanno fatto meno atrocità (nella Guerra d´Indipendenza comunque morì l´1 per cento dell´yishuv) solo perché hanno perso la guerra. Mentre gli ebrei hanno occupato 400 insediamenti nemici, gli arabi ne hanno presi una dozzina. Persero, dunque non furono in grado di compiere tanti massacri».
Dopo questa sua nuova indagine ha concluso che i 700 mila profughi palestinesi furono il risultato di un´esplicita politica di espulsione, o della guerra?
«La verità sta nel mezzo. Non c´è stata nessuna politica ufficiale di espulsione: i maggiori partiti sionisti non l´hanno mai decretata. Abbiamo i verbali delle riunioni di gabinetto, del comando generale, dell´Agenzia Ebraica. Al tempo stesso però le espulsioni ci furono, e, nell´estate ‘48, si decise di non riammettere chiunque avesse già lasciato il paese, espulso o fuggito che fosse».
Una decisione formale?
«Sì. E reiterata in diverse riunioni di gabinetto. Ogni volta che l´Onu o gli Usa hanno proposto un ritorno dei profughi si sono sentiti rispondere no. Il fatto è che nella primavera del ‘48 cambiò l´atmosfera: i palestinesi erano all´attacco; gli americani sembravano incerti sull´appoggio alla spartizione; gli inglesi stavano per ritirarsi; gli stati arabi erano in procinto di invadere: la leadership ebraica allora stabilì di non stare più sulla difensiva. È stata una questione militare, non ideologica, né politica. Molti palestinesi fuggirono, una parte minore fu espulsa: il ritorno fu impedito perché avrebbe destabilizzato il nuovo Stato sul piano demografico e politico».
Lei parla anche di una politica espulsionista araba. Cosa intende?
«Già nel ‘37 Haj Amin al Husseini, leader palestinese, rispose alla proposta di spartizione Peel rifiutando ogni compromesso: lo stato che chiedevano non avrebbe ospitato che gli ebrei venuti prima del 1917 (circa 70 mila dei circa 400 mila dell´yishuv di allora). E questa visione fu accolta nella Carta fondativa dell´Olp e ripresa negli emendamenti del ‘68: solo gli ebrei che avevano scelto la Palestina prima dell´"invasione sionista" (la Dichiarazione Balfour del ‘17, sul focolare ebraico in Palestina) avrebbero avuto la cittadinanza. E nel ‘48, dovunque siano entrati gli arabi, la popolazione ebraica fu cacciata e i villaggi distrutti».
Sono citate anche le espulsioni degli ebrei dagli stati arabi, circa 600 mila persone.
«Dal ‘48 in poi gli stati islamici imposero restrizioni severe ai loro ebrei, ci furono migliaia di arresti, pogrom. Nel giro di pochi anni le comunità ebraiche nel mondo arabo scomparvero, e la maggior parte di loro andò in Israele. 700 mila profughi palestinesi da una parte, 600 mila profughi ebrei dall´altra».
Lei denuncia il concreto rischio di un nuovo Olocausto ebraico.
«Più il tempo passa, più l´Iran si avvicina all´arma nucleare. Israele sarà in pericolo mortale così come l´Europa occidentale, perché i missili iraniani avranno una gittata sufficiente a raggiungerla. Per il Vecchio Continente sarebbe comunque una minaccia, un ricatto. E il terrorismo internazionale si rafforzerebbe. La questione va risolta, il 2008 sarà l´anno cruciale. Qualcuno, gli Stati Uniti o Israele, devono fare qualcosa».
Lo faranno?
«Sì. Ma forse mi sbaglio».
Come vede la conferenza di Annapolis?
«È un teatro delle ombre, non ne verrà niente. I palestinesi, specie quelli legati ad Hamas, respingono il compromesso, vogliono tutta la Palestina. Non cederanno sul cosiddetto "diritto al ritorno" dei profughi o su Gerusalemme. Abu Mazen per di più non ha potere. Qualsiasi cosa firmi, non potrà farla rispettare. E anche Olmert, non c´è che dire, è debole».


 

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