«L'inconfessabile amore per la Palestina»
Non è il grido urlato da esaltati militanti di Hamas o Fatah. E' il sussurro che proviene dalla diplomatica voce delle istituzioni internazionali. Unione Europea, Nazioni Unite, Stati Uniti e Fondo Monetario Internazionale hanno generosamente finanziato la Palestina. Niente di male, se non fosse che queste istituzioni sono le stesse che hanno imposto l'embargo contro l'Autorità Nazionale Palestinese.
Non solo l'embargo è stato violato dai suoi stessi guardiani, ma nel 2006 i fondi destinati alla Palestina sono stati superiori a quelli versati nel 2005. Ovviamente i quattrini non escono dalle loro tasche, ma da agenzie indipendenti – così l'embargo è rispettato almeno formalmente. Un diluvio di denaro per una popolazione demograficamente ridotta. Sommando Gaza e Ramallah, quattro milioni di palestinesi hanno ricevuto nel 2006 1,2 miliardi di dollari.
Ma oltre a tutte le nubi invisibili da cui sarà piovigginato denaro per scopi illegali, la grande massa di fondi che hanno inondato i palestinesi ha prodotto un pericoloso effetto collaterale. Tali fondi sono stati una droga che ha infiacchito il sistema economico palestinese, già sfibrato, inoculando una mentalità parassitaria che s'aggrappa agli aiuti internazionali come risorsa di ordinaria sopravvivenza. Nonostante quest'ingente sostegno internazionale, resta il paradosso di un'economia palestinese che continua ad affondare. Tra Gaza e Cisgiordania la popolazione sotto la soglia di povertà oscilla tra il 45% e il 63%. Questo dimostra che la questione non si gioca soltanto sul terreno del conflitto armato con Israele, ma sui tavoli delle istituzioni internazionali. Un giocatore di primo piano, ma spesso invisibile, sono le casseforti collocate al di fuori del Medioriente, che erogano fondi sui quali però i controlli si interrompono quando ancora è fresca la firma per lo stanziamento. Le sanzioni economiche non sono quindi ritorsioni, ma armi vere e proprie che possono ferire oppure difendere. In questo caso purtroppo hanno soltanto acuito il conflitto israelo-palestinese senza rimediare ad una situazione umanitaria da allarme rosso.
Tutto questo è il frutto amaro della democrazia, come scrisse Daniel Pipes? L'embargo è stata la risposta comune del consesso internazionale alla vittoria elettorale di Hamas e ai suoi bellicosi proponimenti per cancellare Israele dalla cartina geografica. Ma è stata una risposta troppo diplomatica e dettata più dall'opportunismo di non chiudere la porta alla Palestina che non dalla reale intenzione di raddrizzare le derive della democrazia avvolta dalla kefiah. Invece l'embargo ha fatto sprofondare Gaza nella guerra civile e dopo due anni l'unico risultato è la formazione di un governo di unità nazionale di cui Hamas è ancora il cuore vitale e Haniyeh è ancora il primo ministro. Ma il vero frutto amaro non è scoprire la finzione dell'embargo, quanto ammettere che la democrazia non è solo una procedura tecnica per il conteggio dei voti. Il vero motore sta altrove, in un sistema di valori e in una mentalità che i palestinesi non hanno neppure iniziato ad intravedere.
Alla fine la morale è in chiaroscuro. Le istituzioni internazionali sono maschere vuote dietro a cui c'è l'opposto della loro apparenza. Mentre i palestinesi muoiono di stenti e Hamas continua a scagliare i suoi razzi, Israele scopre il suo effettivo isolamento internazionale, sentendosi sbeffeggiata dai suoi presunti amici che finanziano i suoi reali nemici. Nonostante aver saggiato cosa sia il terrorismo islamista, chi si dichiara nemico dei terroristi si limita a parole vuote – il portafoglio è in già in mano ad altri
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